In occasione del Giubileo dei seminaristi, abbiamo raggiunto uno studente del Pontificio Collegio Urbano “de Propaganda Fide”: Euphrem Todossoudé. Fondato nel 1627 da Urbano VIII, il Collegio forma i futuri sacerdoti dei territori di missione e delle giovani Chiese.
Euphrem, vieni dal Benin, uno Stato stretto tra Nigeria e Togo, affacciato sul Golfo omonimo; di quale zona del Paese sei originario? Sei nato in una comunità cattolica? Chi ti ha trasmesso la fede?
Sono nato a Cotonou, la capitale economica del Paese; i miei genitori, originari della parte Ovest del Benin, si erano trasferiti lì per lo studio e il lavoro. Sono cresciuto e ho avuto la mia vocazione a Cotonou. La fede me l’ha trasmessa mia madre, una donna molto religiosa che non manca mai alla Messa quotidiana.
Tutta la mia famiglia è cattolica e sono cresciuto da bambino in un ambiente di fede.
Qual è stata la tua storia di vocazione? Come hanno reagito i tuoi genitori e amici?
Non c’è stato un evento particolare o sconvolgente, la mia vocazione è arrivata da bambino: è iniziata a entrare dentro di me quando avevo tre anni o quattro anni, vedendo un prete missionario, salesiano di don Bosco, che animava la vita parrocchiale a Cotonou; era un uomo semplice che si avvicinava a tutti e con i bambini era come un padre; io avevo il desiderio di diventare come lui e man mano che crescevo ho saputo che il suo riferimento era Cristo e dunque anch’io ho voluto diventare come lui, immagine di Cristo, segno visibile della presenza di Gesù.
Crescendo mi sono reso conto che tanti avevano concezioni sbagliate della religione cattolica che potevano portare fuori strada e me ne dispiacevo; se solo potessero gustare veramente questa bellezza della fede cattolica – mi ripetevo – non avranno più queste idee e questi pensieri sbagliati. Dunque non desidero soltanto stare in mezzo alla gente per servirli, ma anche per confermarli e aiutarli nella fede per crescere insieme nella conoscenza di Cristo. Il desiderio più concreto di entrare in seminario si è manifestato quando ho finito le scuole superiori, dopo la maturità; con mia madre non ho avuto problemi, ha capito subito e mi ha sostenuto fin dall’inizio, con mio padre è stato un po’ più difficile perché lui aveva altri progetti per me; alla fine ha accettato anche lui, ha capito che quella era la mia scelta e mi avrebbe accompagnato. Tutta la mia famiglia mi sostiene. Tra i miei amici di scuola, alcuni erano contenti, altri erano colpiti soprattutto dal fatto che rinunciassi a sposarmi, a mettere su famiglia, a loro ho risposto che più della gioia di avere figli miei, c’era una moltitudine di bambini che avrei avuto come sacerdote, battezzandoli e seguendoli come figli spirituali.
Hai iniziato il tuo percorso nel tuo Paese? Quando sei arrivato in Italia? Come è stato l’impatto con una società diversa?
Ho iniziato il mio percorso nel 2015 nel mio Paese, ho fatto l’anno spirituale, tre anni di filosofia, un anno di tirocinio in seminario dove ho insegnato matematica e religioni, ricoprendo il ruolo di intendente, e un anno di teologia. Quando il vescovo nel 2021 mi chiese di venire a Roma per proseguire gli studi, ho avuto un po’ di ansia: non conoscevo la gente, c’era una nuova lingua da imparare, ma alla fine mi sono fidato dicendomi che se davvero mi stavo dedicando al servizio, dovevo abbandonarmi alla volontà di Dio, e imparare non soltanto ad obbedire ma ad accettare realtà nuove per crescere nella fede.
L’impatto è stato positivo perché ho incontrato gente meravigliosa, a partire dai miei compagni del Collegio che arrivavano da molte parti del mondo; poi nelle diverse comunità parrocchiali che ho conosciuto, ho trovato un affetto che mi circonda e mi spinge ad andare avanti e a poter ormai servire ovunque andrò.
Come è scandita in Collegio la giornata di uno studente?
Ogni mattina abbiamo la Messa, la meditazione e le Lodi e poi l’Università; e dopo l’Ora Media, il pranzo, ancora le lezioni o lo studio personale; ma ci sono anche i momenti per lo sport comunitario con partite di calcio e pallacanestro. Abbiamo anche incontri formativi, fino alla cena, dopo la quale ci sono altre attività come per esempio il coro, lo studio personale o il riposo. La mattina dopo si riparte. Nel fine settimana, soprattutto il sabato sera o la domenica, per chi è già al secondo anno, ci sono poi le attività pastorali in parrocchia o i servizi di carità. La domenica vado nella parrocchia di San Paolo della Croce, a Corviale.
Quanto è importante questo servizio e il contatto con il popolo di Dio per un seminarista? Di che cosa in particolare ti occupi in questa parrocchia?
Questo tipo di servizio ci aiuta molto ad avvicinarci alla realtà parrocchiale, ci aiuta a svolgere il servizio in mezzo al popolo di Dio, a non rimanere ad un livello teorico della formazione ma ci porta ad un livello molto più pratico.
Quando per esempio nella Messa svolgiamo il servizio alla mensa e nella distribuzione della comunione, esercitiamo il ministero che abbiamo ricevuto ma approfondiamo allo stesso tempo la nostra fede e il nostro rapporto personale con Cristo e la gente che riceve Cristo da noi. Poi c’è il catechismo dove i bambini fanno domande straordinarie che ti fanno chiedere se abbiano studiato teologia. Capisci che gli studi che fai, ti aiutano ad affrontare quelle e altre sfide per aiutare chi ne ha bisogno a crescere nella fede.
La storia di Gesù è una storia di periferie, di piccoli, di scartati agli occhi della società; quanto un punto di vista come quello di Corviale aiuta a comprendere meglio prospettive e percorso di crescita di un giovane che si prepara a diventare sacerdote?
Frequentare una realtà come quella di Corviale mi aiuta tantissimo. Tanti vedono il prete come un uomo di un certo livello, un’autorità paragonabile ad altri ruoli istituzionali di una città; sì, è importante, in quanto rappresentante di Cristo ma è chiamato anche ad essere presenza effettiva di Dio verso i piccoli; se risaliamo alla storia del popolo di Israele, vediamo che Dio è Dio degli anawim, dei poveri, degli umili.
Per questo per me Corviale è una bella esperienza: capisco quanto le persone che vivono situazioni particolari, di difficoltà emozionali, morali, economiche, sono capaci di cogliere veramente la presenza di Cristo quando ricevono questa vicinanza dai presbiteri o preti.
Non basta rimanere negli uffici, pensare che la vita del prete si limiti a cose grandiose, la vita di Gesù si svolgeva in mezzo ai più piccoli, agli emarginati.
Stiamo vivendo un Giubileo reso ancora di più storico per la morte del Papa che l’ha indetto e l’elezione del nuovo Pontefice che da poco ha iniziato a guidare la Chiesa; da Francesco a Leone XIV, come questo periodo di grazia e speranza segna la vita di un giovane studente del seminario?
Ho 27 anni e questo è il mio primo Giubileo ordinario che vivo pienamente e lo vivo a Roma. È un momento di grazia per me, non soltanto per la posizione geografica ma proprio per gli eventi che hai evocato: la morte del Papa che l’ha indetto, l’elezione del nuovo Papa, anche il tema della Speranza aiuta a percepire questa grazia. Ci siamo addolorati per la scomparsa di Francesco ma nella speranza abbiamo aspettato, pregato e abbiamo avuto il nuovo Papa. Vivere questi eventi nel cuore del Giubileo è il segno della speranza che non delude mai, come dice San Paolo nella Lettera ai Romani (5,5). Abbiamo sperato e abbiamo veduto la gloria di Dio con la scelta del nuovo Papa. Per me seminarista è l’occasione di capire ancora di più che Cristo, che è la nostra speranza come dice San Paolo nella prima lettera a Timoteo (1,1), ci fa vivere con serenità ogni evento della nostra vita; è il Signore stesso che ci conduce, passo dopo passo. Lo provo nella mia vita:
se fossi rimasto a casa sarei già prete, come lo sono i miei compagni di seminario in Benin, ma il vescovo ha voluto che continuassi gli studi, questa è la prova che nella vita del cristiano non c’è fretta, c’è da vivere ogni momento considerandolo come momento di grazia, pieno della presenza di Dio.
Questa è l’esperienza che faccio ogni giorno, vivendo la mia fede per conformarmi di più alla vita di Cristo e poter rendere tutto quello che avrò imparato a tutti quelli che ne avranno bisogno.
“Chiamati alla speranza. Uscire da sé per essere missionari credibili” è il motto comunitario che ha guidato voi studenti del Collegio durante quest’anno formativo 2024-2025. In un mondo segnato da guerre, ingiustizie e stravolgimenti climatici, quanto è importante che i cristiani si facciano testimoni di speranza? La speranza cristiana può rappresentare un programma di vita?
La speranza cristiana è un programma di vita. Essere missionari credibili ci permette di comunicare questa speranza a tutti quelli che vivono in situazioni di difficoltà.
È importante per me, giovane seminarista, non rimanere intrappolato dentro schemi chiusi, personali, e pensare che solo il mio mondo sia un riferimento per tutti; poter uscire dalle mie convinzioni personali per abbracciare l’obiettività della fede e della speranza che è Cristo, affinché nella consapevolezza di questa speranza, che è Cristo, possa comunicare in modo vero e autentico chi è Cristo agli altri attraverso la mia testimonianza di vita per poter aiutare tutti a conoscere Cristo come realmente è, e non come io lo penso per me stesso.