Fatti
Il varo da parte del governo del disegno di legge delega sull’edilizia è stato accompagnato da polemiche accese, come quasi sempre accade quando si affronta il tema della casa, uno dei più sensibili per l’opinione pubblica italiana. Fermo restando che, trattandosi di una delega, un giudizio approfondito sarà possibile solo quando il ddl sarà approvato dal Parlamento e l’esecutivo avrà emanato i decreti legislativi di attuazione, al momento il contrasto con le opposizioni si è concentrato principalmente su due aspetti. Il primo è relativo al problema degli sfratti. E’ innegabile che ci siano norme pensate a tutela di soggetti vulnerabili e che invece vengono utilizzate da persone e gruppi per interessi particolari, se non addirittura illeciti, divenendo così strumenti di prevaricazione in barba al significato originario delle norme stesse. E’ un filone di cui le cronache danno spesso conto e che deve trovare un’adeguata regolamentazione. Ma attenzione a non ribaltare le proporzioni di un fenomeno che viene sistematicamente strumentalizzato per motivare le abnormi dimensioni del numero di case sfitte. Secondo i dati della Svimez la quota di abitazioni non occupate in Italia è del 27,3%, tre volte quella della Francia e sei volte quella della Germania.
Il secondo filone controverso è quello della sanatoria. Anche in questo caso siamo di fronte a un problema reale – l’esigenza di semplificare le procedure in presenza di difformità marginali – che però non può diventare il pretesto per l’ennesimo condono, che si preannuncia maxi anche perché già sono in pista il “salvacasa” e gli interventi previsti dalla manovra per racimolare un po’ di coperture finanziarie (e qualche voto in più).
Il nodo centrale, comunque, resta quello della mancanza di una progettualità politica che affronti in maniera strutturale quella che oggi si manifesta come una grande questione sociale. I dati di questa emergenza sono molto eloquenti. A fronte di 9,6 milioni di abitazioni non occupate, quasi 4 milioni di italiani vivono in condizioni di povertà abitativa e l’edilizia residenziale pubblica possiede appena il 2,5% degli immobili. Nel 2024 il 5,1% della popolazione italiana era in condizioni di sovraccarico di costi abitativi, con spese per l’alloggio superiori al 40% del reddito. L’inflazione in questi anni ha avuto un forte impatto sui salari reali e la diffusione della proprietà è in calo a vantaggio degli affitti. Per i meno abbienti è sempre più difficile ottenere un mutuo e quando si riesce nell’impresa le condizioni di indebitamento permanente erodono la qualità della vita personale e familiare. Sul costo degli affitti, peraltro, pesa in modo determinante il boom di quelli brevi a uso turistico. In difficoltà ci sono anche coloro che appartengono alla cosiddetta “classe grigia”, quella che ha redditi tali da essere esclusa dagli alloggi popolari, ma non sufficienti per potersi approvvigionare sul mercato.
Ogni tanto c’è un governo che annuncia un “piano casa” ma a ben vedere l’unico che meriterebbe davvero questo nome è ancora quello che porta la firma di Fanfani, messo in opera tra 1949 e 1963. Erano tempi in cui la politica era in grado di pensare lungo, di guardare al futuro. Oggi il Paese “ha saputo, più e meglio di altre grandi democrazie occidentali, porsi faccia a faccia con il presente”, ha sottolineato il recente Rapporto Censis, ma per andare avanti “l’autonoma difesa immunitaria non basta, non può sostituire la necessità di visione e di azione”. E’ quel che manca alla nostra politica.