Un incontro davvero intenso, coinvolgente e arricchente, a tratti “indigesto” per i temi trattati: la sofferenza e il fine vita. Si è tenuto il 26 settembre in sala Paladin a Palazzo Moroni, a Padova, dal titolo Sulla soglia della porta stretta. L’occasione è stata il ricordo di Maria Vittoria Milanesi, a sei mesi dalla morte. Sono intervenuti Filomena Gallo, avvocato, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni e il medico Giovanni Putoto, direttore sanitario di Medici con l’Africa Cuamm. A introdurre il giornalista Ernesto Milanesi, fratello di Maria Vittoria. «L’evento – ha esordito Ernesto Milanesi – è l’occasione di misurare due opinioni e sensibilità diverse di fronte al destino del fine vita. Quindi la vita e la morte, le scelte individuali e la legge uguale per tutti, le cure e la porta stretta, i diritti e la pena. Se il titolo di questa iniziativa suona come esplicito riferimento al Vangelo di Matteo, tuttavia proprio la soglia, dal punto di vista laico, rappresenta la libertà».
Giovanni Putoto ha avviato la riflessione ponendosi la domanda «cosa c’è oltre la soglia? C’è la sofferenza e la morte. Poi il “come”, come ci si pone sulla soglia? Di fronte al dolore e alla morte occorre mantenere un atteggiamento di profondo rispetto, in punta di piedi, con pudore e nel silenzio. I percorsi sono tanti, diversi e vanno rispettati». Il medico ha raccontato alcune situazioni vissute nella sua lunga esperienza africana con il Cuamm che rimandano al tema trattato, evidenziando tre passaggi. Il primo «lo sintetizzo con la parola mistero». Siamo nel 1994 e Putoto con altri viene chiamato per andare in Ruanda dove è in corso un genocidio: devono dare supporto e ridare una normalità a dei bambini che sono stati testimoni di uccisioni e violenze di parenti. «Questi piccoli portavano dentro di sé una ferita profonda, un trauma psicologico. Sono stati chiamati a dare voce al loro dolore, a esprimere quello che avevano visto. Quella situazione mi ha fatto riflettere sul fatto che, anche dalla nostra vita personale e comunitaria, non si può scappare dal tema della sofferenza e della morte, dobbiamo farci i conti. E nel farlo, una delle domande più radicali è “qual è il senso quando tutta questa sofferenza e morte colpiscono un innocente?”. Quindi il mistero che rimane».
La seconda parola è «insieme»: l’Africa ha insegnato al medico a vivere non da soli le fasi finali della vita. «Nella sofferenza e nella morte l’accompagnamento è fondamentale. Oggi in Occidente viviamo il fenomeno della solitudine, un’epidemia che si sta diffondendo. Sempre di più ci sono persone in uno stato di abbandono, che affrontano il percorso della malattia e della morte. Non dovrebbe succedere qualunque scelta si faccia. “Insieme” fa la differenza». Infine la parola «e se?…la sofferenza e la morte avessero un senso, generassero la vita, il bene?». Anche per questa riflessione il dottor Putoto è partito da una sua esperienza in terra d’Africa, arrivando a dire che «la prospettiva con cui affrontare il tema misterioso della sofferenza e della morte, oltre che insieme agli altri, è che non siano inutili. Possano essere generative. La vita va vissuta fino all’ultimo respiro concesso, per questa sua capacità di generare altra vita, altro bene».
Filomena Gallo prendendo la parola, ha sottolineato che, in mancanza di una legge regionale sul fine vita, ci sono «le persone con i loro corpi, con il loro diritto all’autodeterminazione, con i passi che compiono». L’esperta ha citato la legge 219 del 2017 che tratta di consenso informato e testamento biologico. «Quella legge prevede che siano fatte campagne informative, ma non avviene. Una persona correttamente informata può scegliere in modo consapevole e capire che il Testamento biologico non va fatto solo se si sta male, ma quando si sta bene. All’improvviso può accadere qualcosa che non si ha previsto. Non ci fermiamo mai a pensare che tutto può cambiare, finire».
Emblematico il caso di Fabiano Antoniani, conosciuto come dj Fabo: un incidente gli ha cambiato l’esistenza, «si risveglia tetraplegico, completamente paralizzato, cieco, con un respiratore a intermittenza. E inizia quella che lui definiva “una notte senza fine”». Nel febbraio del 2017 il giovane si è recato in Svizzera per accedere al suicidio assistito (in Italia è possibile in casi particolari in forza della sentenza numero 242 del 2019 della Corte costituzionale). Poi la storia di Gloria, veneta, che combatte contro il cancro «che a volte non si vince e il medico arriva con un verdetto terribile: “Non ci sono più linee terapeutiche possibili”. Quella è una sentenza che dice “guarda che il tuo tempo è finito”. La persona inizia a pensare al proprio fine vita e lo fa con una fame di vita che in pochi percepiscono: cerca di stare il più possibile con le persone che ama, con gli amici; guarda un raggio di sole che entra dalla finestra e lo percepisce in modo diverso. Inizia a salutare la vita. L’ultima cosa che vorrebbe, è morire nella sofferenza. E ci scrivono all’associazione chiedendo: “quali scelte possiamo fare in un Paese dove non c’è la legge che riconosce e rispetta tutte le scelte sul fine vita?”». Filomena Gallo ha ricordato la legge del 38 del 2010 sulle cure palliative, che garantisce il diritto al controllo del dolore e prevede, nei casi appropriati, la somministrazione della sedazione palliativa profonda: «La legge 38 non è ancora applicata come dovrebbe essere».
Riferendosi ai casi seguiti dall’associazione Luca Coscioni ha specificato che «il diritto alla cura è per tutti e ad un malato che fa determinate scelte va garantito un perimetro di trattamenti sanitari e assistenza, non di ostacoli. Ci deve essere la libertà di scelta: si può scegliere di curarsi o di rifiutare tutte le cure; scegliere di essere aiutati a controllare il dolore o di dire basta. Ci vuole coraggio a decidere di passare per quella porta stretta, sia che si chieda il suicidio medicalmente assistito o l’eutanasia, sia che si dica “sì” alla sedazione palliativa profonda».