Dopo due anni di conflitto si è finalmente raggiunta una tregua fra Israele e Hamas. Ora si tratta di verificare se il cessate il fuoco regge, se possono finire le violenze, se si può cominciare a ricostruire… Ne parliamo con Miriam Ambrosini, milanese che da anni vive in Medio Oriente, e che ricopre il ruolo di delegata per Palestina, Libano e Iraq per Terre des Hommes.
Ci sono state innumerevoli vittime e infinite distruzioni in questi due anni in Terra Santa: quali altri segni profondi restano, a suo avviso, nelle popolazioni coinvolte?
Il problema è che non si è trattato “solo” di un conflitto, ma in base agli accertamenti svolti dalle Nazioni Unite si è trattato di un genocidio. Non è solo una questione di definizione, ma di tutto quello che ne consegue: migliaia di famiglie distrutte per sempre, villaggi e città rasi completamente al suolo, un numero mai visto prima di bambini che non hanno più i genitori, oltre 20.000 bambini feriti in maniera permanente. E potremmo citare tante altre conseguenze. Tutto questo non può non lasciare ferite indelebili nella vita e nell’animo della popolazione palestinese. A ciò si aggiunge il fatto, non trascurabile, che l’accordo firmato in Egitto è avvenuto senza i palestinesi, i quali, ancora una volta, si trovano di fatto senza diritti, senza Stato e con ampie parti del territorio (pensiamo anche alla Cisgiordania) occupate da Israele. Costruire la pace in queste condizioni è difficile e il rischio che la spirale di violenza, che nasce da una situazione di profonda ingiustizia, discriminazione, squilibrio di potere possa riprendere è molto alto.
Il 7 ottobre 2023 ha segnato uno spartiacque per Israele e per la popolazione palestinese. Ma si direbbe che l’intero Medio Oriente sia stato segnato dalla guerra. I Paesi coinvolti sono numerosi, basti pensare a Libano, Siria, Qatar, Iran. Lei vive tra la gente di queste terre: quali i sentimenti diffusi che si provano?
In realtà in Medio Oriente il 7 ottobre è stata una data significativa ma fino a un centro punto, perché’ tante situazioni di tensione e conflitto erano già note: la presenza sempre più massiccia dell’Iran e delle sue milizie e la conseguente preoccupazione di Israele, dell’Occidente e del Golfo, la crescente violenza israeliana nei confronti dei palestinesi, la profonda crisi politico-economica del Libano, ecc. Tutte queste dinamiche sono esplose una dopo l’altra ma con poca sorpresa e molta accettazione da parte della popolazione locale.
Purtroppo, in Medio Oriente tutti si aspettano che qualcosa succeda, che la pace non possa mai durare, che arrivi un nuovo conflitto.
Forse questa volta c’è stata un po’ più di sorpresa rispetto all’assoluta impunità di Israele che in due anni ha colpito Palestina, Yemen, Iran, Qatar, Siria e Libano e continua ancora a bombardare quotidianamente alcuni di questi Paesi. Ma a parte questo prevale, tristemente, un grande senso di rassegnazione, sfiducia e impotenza.
La Chiesa sta vivendo il Giubileo della speranza. Il Medio Oriente è una grande regione, ricca di storia, che ospita popolazioni tanto differenti tra loro, segnata dalle grandi religioni monoteiste. Se le chiedessi quali speranze si coltivano in Medio Oriente? Si può sperare in un futuro di giustizia, di diritti, di vera pace?
Coltivare la speranza e lavorare per la pace è un nostro dovere sempre, come credenti e come cittadini. Popolazioni diverse possono convivere insieme, nei Paesi del Medio Oriente ci sono tanti esempi di lunghissime convivenze assolutamente pacifiche tra persone appartenenti a religioni diverse. Il problema non è tanto questo, il problema sono gli interessi politici, economici e militari legati al Medio Oriente.
La religione viene quindi strumentalizzata sia a livello locale dai vari partiti ma anche a livello internazionale, perché le diverse potenze appoggiano uno o l’altro gruppo etnico/politico/religioso per raggiungere i propri interessi.
Il desiderio che più di tutti gli altri sento esprimere in tutti i Paesi del Medio Oriente che frequento è quello di essere lasciati liberi, di non continuare a subire interferenze esterne, di essere trattati al pari degli altri Paesi e non sempre etichettati come guerrafondai, terroristi, migranti… Forse la chiave è quella di mettere al centro l’uomo e tutti i suoi diritti, ricordandoci che i diritti umani sono universali e inalienabili, non si può fare un po’ sì e un po’ no a seconda di quello che ci conviene.