«Una tassa sui piccoli pacchi provenienti dalla Cina acquistati da consumatori europei a prezzi stracciati? Sarebbe un ottimo inizio, ma è tutto da vedere se accadrà veramente». È al tempo stesso scettico e fiducioso Riccardo Capitanio, presidente di Federmoda Confcommercio Veneto e Ascom Padova nel commentare la notizia che l’Unione Europea starebbe vagliando la proposta di applicare un obolo di 2 euro sui pacchi di piccoli dimensioni. Si calcola che ogni anno transitino per le dogane europee circa 4,6 miliardi di colli, di cui oltre il 90 per cento proviene dalla Cina e con valore inferiore a 150 euro, il che vuol dire esenzione totale dalle tariffe doganali. «Oltre alla concorrenza sleale con il commercio interno, immaginiamo l’enorme lavoro che tutti questi pacchi comportano alle dogane che devono controllarli uno a uno. Un onere che non viene ripagato dalle tasse, per cui data la mole di merci in transito qualcosa potrebbe anche non essere vagliato. Una tassa di uno o due euro, invece, moltiplicata per i miliardi di pacchi, porterebbe a entrate che potrebbero essere investite in sicurezza o ambiente – continua Capitanio – Al momento solo Francia e Italia si sono pronunciate a favore dell’introduzione di questa piccola imposta, che poi tanto bassa non è se pensiamo che a volte i pacchi sono di 20 euro, quindi stiamo parlando del 10 per cento del prezzo di acquisto.
Ma sarebbe sempre un segnale, perché la questione è molto più complessa». In effetti quando si parla di fast fashion, a essere danneggiato è soprattutto l’ambiente: «Noi esportiamo ricchezza e importiamo inquinamento dal momento che le aziende come Temu e Shein – che producono capi di abbigliamento a pochi euro – non rispecchiano la sostenibilità delle filiere. Mi riferisco al tema ambientale, basti pensare che le fabbriche di acetilene con cui si tratta il tessuto sintetico sono state spostate proprio affianco alle fabbriche di Temu per comodità; ma penso anche ai diritti di lavoratori e lavoratrici, perché chiaramente è impossibile garantire le nostre stesse tutele a chi produce una maglietta a un euro. I giovani, molti dei quali paladini della sostenibilità e dell’ambiente, comprano online perché i prezzi sono bassi, ma acquistano prodotti che inquinano. I danni all’ambiente avvengono in fase di produzione, visto che non vengono rispettati i cicli dei lavaggi, durante i trasporti intercontinentali e, infine, nella fase di scarto dal momento che sono prodotti che durano poco e quindi finiscono in discarica» denuncia il presidente di Federmoda Padova. «Il nostro obiettivo resta quello di tutelare i negozi di prossimità che alimentano l’economia del territorio e sono un presidio per mantenere vivi i centri cittadini garantendo, inoltre, la sicurezza. Oggi se da italiano produci in Cina anziché qui hai un guadagno maggiore, mentre dovremmo attivare politiche che agevolino la produzione Made in Italy. Non siamo contrari all’e-commerce ma dobbiamo bilanciare la concorrenza, per esempio con una web tax da far pagare ad Amazon facendo in modo che le entrate restino in Italia» aggiunge Capitanio.
Chi sembra andare nella direzione giusta sono gli Stati Uniti a guida Trump che, malgrado le giravolte continue sui dazi, hanno di fatto diminuito le importazioni dai colossi cinesi della moda. «Dal 1° maggio è finita l’esenzione doganale verso gli Stati Uniti dei prodotti che ricadevano sotto la regola che escludeva dai dazi le importazioni di valore inferiore a 800 dollari e che aveva consentito ai due siti cinesi del fashion di spedire in America milioni di pacchi. Adesso un pacco che parte dalla Cina o da Hong Kong verso gli Usa subisce un dazio che varia dal 120 al 145 per cento o una tariffa fissa di 100 dollari. Risultato: Temu ha interrotto le esportazioni e Shein ha aumentato i prezzi fino al 150 per cento. Ma c’è di più: le dogane a stelle e strisce hanno aumentato i controlli alla ricerca di componenti chimici o droghe sintetiche come il Fentanyl. Quando deciderà di farlo anche l’Unione Europea?» si chiede in conclusione Capitanio.