Mosaico
La giornata mondiale dei poveri e l’Esortazione Apostolica Dilexi te hanno guidato lo sguardo della coscienza mondiale su uno dei problemi più antichi: la mancanza di beni essenziali come acqua, cibo, una casa, un lavoro. Dovremmo ricordarci che questa mancanza non è dovuta solo alla disoccupazione, ma alla volontà di impadronirsi di altra terra, o alla guerra, che colpisce sempre i più poveri.
Una storia che viene da molto lontano e che alcuni scrittori hanno posto al centro della loro opera: basti pensare a Charles Dickens che affrontò il destino di bambini buttati per strada o messi a lavorare a 12 anni, e queste cose le conosceva bene, perché era toccato anche a lui. Quando leggiamo “Un canto di Natale”, o “Oliver Twist”, non dobbiamo pensare ad uno scrittore salottiero romanticamente assorto nella descrizione di bassifondi mai toccati: Dickens li toccò in pieno, lavorando lunghe ore in una fabbrica di lucido per scarpe ad un’età in cui avrebbe dovuto frequentare le scuole.
Ma se è per questo, anche altri hanno affrontato la miseria e la fame per scelta: è accaduto al Jack London di “Il popolo dell’abisso”, che ai primi del Novecento scese nell’East London a condividere affanni, lavoro, miseria con i poveri di un Paese che però a livello di grande politica industriale era tra i più avanzati. Con il sacrificio di quegli ultimi cui un altro profeta dell’umanizzazione del lavoro, John Ruskin, aveva dedicato nel 1863 “Fino all’ultimo”, testimonianza profetica di quanto il progresso economico e industriale faccia pagare con la miseria, la vergogna e spesso la morte il conto alle fasce più deboli della popolazione.
Ciò che aveva compiuto Victor Hugo nel suo “I miserabili”, e siamo sempre poco dopo la metà Ottocento, o, il secolo dopo, il Pasolini di “Ragazzi di vita”, che narrava la complessità del mondo di borgata: non tanto il mendicante che chiede l’obolo per strada, ma ragazzetti alla ricerca dell’occasione facile, e quando il rischio è la fame, non badano alle regole. In “L’Ammazzatoio” di Zola questa desolata realtà viene descritta implacabilmente, senza troppi giri di parole, perché lo sfruttamento vuol dire non solo povertà, ma anche malattia, alcolismo, disperazione.
Altre esperienze fuori dalla norma ci spingono in una direzione apparentemente opposta, quella della scelta della povertà come scopo della propria vita. Si prenda “Walden o la vita dei boschi”, di Henry David Thoreau, dove si assiste alla scelta di andarsene dalla sazia folla per costruirsi una capanna di legno presso un lago e di vivere esclusivamente a contatto con la natura. E come non ricordare le pagine terminali dell’ultimo romanzo di Pirandello, “Uno, nessuno e centomila” in cui un uomo ricco, possessore di una banca, decide di dar vita tutto e di far costruire con i suoi soldi un ospizio di mendicità: il primo ad essere accolto sarà proprio lui, divenuto povero e ritenuto folle, beandosi del contatto con la natura e con la bellezza del creato.
Il che ci fa andare, e qui vediamo quanto poco valgono le etichette poste su autori e opere, dal laicissimo Pirandello al capolavoro assoluto che ha segnato per sempre la cultura, la religione e la vita stessa degli uomini, credenti e anche no: il Cantico di frate Sole, di cui stiamo celebrando l’ottavo centenario, scritto per essere cantato da un uomo non di elevata cultura, che anzi vedeva l’esibizione di quella cultura come il male, destinato a rimanere per sempre nelle vette di quella letteratura che prima di lui, e pure dopo, se è per questo, era forma, ricerca della fama, della gloria mondana.