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Mappe IconMappe | Mappe 09 – Il caro vita – ottobre 2022

martedì 11 Ottobre 2022

Sanità: una scelta obbligata. Il ripiego nel privato

40 miliardi di euro è la cifra sborsata in Italia nel 2020 per sopperire ai limiti e ai ritardi del servizio pubblico sanitario

Ernesto Milanesi
Ernesto Milanesi
collaboratore

Tempo e denaro. Come nella clessidra: scorre il tempo, mentre si spende per guadagnarne altro. Se il lavoro assorbe la quotidianità familiare, non resta che pagare i “servizi” essenziali. Vale per la babysitter e la badante, la scuola a tempo pieno e lo sport; perfino per la salute quando la diagnosi, la riabilitazione, l’ausilio servono in tempi rapidi. Welfare, ma privato.

Il “modello originale” – affidato allo Stato con la redistribuzione delle tasse nel solco del principio di uguaglianza – è ormai solo un ricordo. Sussidiarietà (costituzionale dal 2001, Governo Amato), aziendalismo a tutto campo e rigidità nei bilanci pubblici hanno spalancato le porte al progressivo smottamento verso il privato. E oggi il quadro non lascia più dubbi. Il rapporto del Centro studi e ricerche di Itinerari previdenziali evidenzia come nel 2020 le famiglie italiane abbiano sborsato 98,5 miliardi di euro per “integrare” pensioni, sanità e assistenza. Non basta: più di 40 miliardi erano out of pocket, cioè spese socio-sanitarie per supplire ai limiti e ai ritardi del servizio pubblico. Altri 33 miliardi riguardavano l’assistenza domiciliare o le rette nelle strutture, quando la famiglia fa i conti con la nonautosufficienza. Welfare privato, infine, anche nella previdenza (16,5 miliardi) e nelle assicurazioni individuali (3,2 miliardi).

L’industria che cresce. L’edizione 2022 del “Bilancio di welfare delle famiglie italiane” a cura del Cerved conferma la rivoluzione sociale: «Nell’ultimo anno più di metà delle famiglie ha rinunciato a prestazioni sanitarie, e nel 13,9 per cento si è trattato di rinunce rilevanti. Il 56,8 per cento ha rinunciato (22 per cento in modo rilevante) a servizi di assistenza agli anziani e il 58,4 per cento a servizi di cura dei bambini ed educazione prescolare». L’idea di Welfare assorbe in un anno oltre 5 mila euro a famiglia ovvero il 17,5 per cento del reddito netto. Salute e assistenza agli anziani, di nuovo, rappresentano la voce di spesa più consistente. Tuttavia, l’amministratore delegato di Cerved,Andrea Mignanelli, suggerisce un’interpretazione interessata: «L’industria del welfare è un settore trainante per la crescita: ai 136,6 miliardi di spesa delle famiglie si aggiungono 21,2 miliardi del welfare aziendale e collettivo, per un valore pari al 9 per cento del Pil. Gli investimenti sono decisivi per rinnovare il nostro sistema di welfare, generando nuovi modelli di servizio capaci di rispondere alla domanda delle famiglie».

Le alternative di prospettiva. Al “sistema” si possono affiancare esperienze dirette, solidali e mutualistiche. Ma anche cambiare prospettiva: il servizio sociale di comunità che in estrema sintesi è l’approccio che sostiene le persone a migliorare collettivamente la realtà in cui vivono. Natural helpers li definisce invece il pedagogista Marco Tuggia che divide l’impegno fra le cooperative vicentine e il Laboratorio di ricerca e intervento in educazione dell’Università di Padova: «Operatori sociali, ma anche terapeuti scalzi, magari poveri di tecniche e strumenti professionali e tuttavia esperti di umanità – spiega Tuggia – Parlando di aiuti naturali e non solo di famiglie in senso stretto, si intende valorizzare le singole persone e le diverse realtà sociali presenti nelle comunità locali che vogliono e possono esprimere una qualche forma di supporto».

Il “laboratorio” Will. È la sigla di Welfare innovation local lab, che nel 2019 aveva messo insieme dieci Comuni del Nord (Bergamo, Como, Mantova, Reggio Emilia, Parma, Ravenna, Rovigo, Padova, Cuneo, Novara). Città medie con caratteristiche sociali non difformi, alle prese con i limiti dei tradizionali approcci negli interventi sociali. In particolare, Will si misurava subito con la forbice del welfare locale: bisogni crescenti e risorse limitate. Il laboratorio ha almeno individuato tre linee guida per affrontare l’impasse. «Il welfare deve agire come sistema promozionale di processi di aggregazione e ricomposizione sociale di gruppo e quindi di community building». In sostanza, reti sociali esistenti da rivitalizzare con nuove esperienze. E valorizzare i diversi servizi pubblici esistenti nei vari silos culturali, sportivi, ricreativi anche per funzioni di aggregazione sociale. In secondo luogo, un welfare in grado di «promuovere piattaforme che agiscano come market place per l’acquisto di servizi sociali o domestici professionali, che promuovano,l’aggregazione della domanda, condividendo un assistente personale o un sostegno per i compiti, contemporaneamente per tre anziani o tre studenti». Infine, un’iniziativa precisa: «Il welfare per agire sui bisogni emergenti più intensi ha bisogno di conoscere i gap tra bisogni e servizi, a livello aggregato anonimo e individuale».

Una cura globale? Covid e guerre hanno peggiorato le condizioni di vita nel mondo. L’Organizzazione mondiale della sanità segnalava già nel 2015 che 926 milioni di persone dovevano spendere oltre il 10 per cento del budget familiare per le cure sanitarie. Nel rapporto pubblicato a giugno, l’Oms ha aggiornato il focus: «Secondo le stime sono oltre 435 milioni le persone spinte ulteriormente nella povertà estrema a causa delle spese sanitarie sostenute di tasca propria».

Istituti di cura: sono pubblici sono la metà

La sanità? Business. Prima della pandemia, in Italia si contavano 25.279 aziende. Con Synlab Italia (che ha incorporato Data medica) che fatturava 118,5 milioni di euro e la Casa di cura di Abano a quota 75,4 milioni di euro. Secondo i dati ministeriali, nel 2020 l’assistenza ospedaliera contava su 1.004 istituti di cura, di cui il 51,4 per cento pubblici. E in Veneto i posti letto totali risultavano 17.232, mentre quelli privati accreditati 1.784.

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