Non saranno certo alcuni strumenti di intelligenza artificiale addestrati con tutto lo scibile della tradizione cattolica a risolvere la crisi irreversibile della catechesi per l’iniziazione cristiana dei bambini e dei ragazzi. Come notato la scorsa settimana, questi strumenti per certi versi molto utili ed efficaci non fanno che sostenere quella pratica sostanzialmente scolastica da cui la Chiesa italiana tenta di uscire da decenni.
Fallita anche l’opzione digitale, con cui qualcuno sperava di dare nuova efficacia a cammini importanti che hanno segnato e fatto crescere la vita delle nostre comunità per decenni, il rischio di una resa assoluta sembra paventarsi all’orizzonte. Potrà mai la chiesa trovare forme e strumenti utili ed efficaci per trasmettere la fede alle giovani generazioni? Potrà farlo a maggior ragione in un tempo in cui il digitale sta realmente trasformando radicalmente i processi educativi? Se neanche l’intelligenza artificiale salverà la catechesi, cosa faremo?
In realtà l’esito pessimista non è l’unico possibile e la tradizione cristiana può offrire chance sorprendenti. Forse basta ripartire dai ragazzi.
Come imparano i nativi digitali? Mark Prensky, nel suo famoso articolo più volte citato, mostra come i bambini e i ragazzi di questo tempo tecnologico imparano in modo rapido e interattivo, privilegiando l’esperienza pratica, facendo più cose insieme, prediligendo le immagini al testo; faticano a lavorare da soli ma amano esperienze di gruppo e collaborative, partecipando attivamente ai processi.
Il catechismo tradizionale, come una parte significativa delle attività scolastiche (cui Prensky nel suo articolo fa riferimento) non ha nessuna possibilità con questi ragazzi. Parla loro con una lingua a loro sconosciuta. È del tutto inutile. Tempo sprecato.
Ma il catechismo non è – fortunatamente! – l’unico strumento. Esistono nella tradizione cristiana esperienze capaci di parlare a questi ragazzi? Esistono pratiche comunitarie, fortemente simboliche, partecipative, coinvolgenti, ritmate e variegate, in cui questi ragazzi possono ascoltare nella loro lingua la sempiterna buona notizia del Vangelo?
La prima, e più sorprendente, si chiama liturgia. Cosa c’è di più simbolico, coinvolgente, comunitario, di una Messa ben celebrata da un’assemblea vivace? O di una preghiera in montagna al sorgere del sole o sotto le stelle? La liturgia, se ben vissuta e celebrata, è un linguaggio tanto antico quanto adatto ai nativi digitali.
Poi ci sono gli oratori, lo scoutismo, il variegato e ricco associazionismo cristiano. Tutte esperienze (e qui la parola è decisiva) che offrono percorsi di crescita comunitari, coinvolgenti, simbolici, in cui i bambini e i ragazzi sperimentano (appunto!) un protagonismo loro consono e possono gustare la bontà del Vangelo per la loro vita. Tutti ambienti in cui scoprono, fra l’altro, che è possibile vivere intensamente anche senza rimanere attaccati al loro smartphone. L’esito è paradossale quanto vero: con i nativi digitali non dobbiamo necessariamente usare troppa tecnologia.
La liturgia e la vita comunitaria costituiscono una parte rilevante del vissuto delle nostre parrocchie. Questo significa che le nostre comunità sono tra i soggetti oggi meglio attrezzati per accompagnare e crescere i nativi digitali. A patto di uscire dalle aule di catechismo.