In questi giorni è al centro di un acceso dibattito la scelta di non sostenere il colloquio orale dell’Esame di Stato da parte di alcuni studenti (pochi, per la verità), il cui punteggio di base, relativo all’esito delle prove scritte e ai crediti accumulati nel corso del triennio, già garantiva di fatto la promozione.
Decisione senz’altro discutibile, ma sintomatica di un certo disagio che attraversa negli ultimi anni la scuola italiana. Un sentimento che ha prodotto anche altre proteste come quella di una studentessa di Lugo (Ra), autrice nel maggio scorso, di una lettera accorata rivolta ai propri docenti nella quale scriveva: “Mi domando perché la mattina mi sono alzata per andare in un luogo dove nessuno mi vede, dove nulla mi interessa, dove si è solo di fretta e in ansia per finire un programma che nessuno sa davvero perché segue, dove mi giudicate per quindici minuti e mettete sul registro un voto immotivato su qualcosa che mi avete spiegato in modo freddo, distante e morto”.
Oltre alle rimostranze di questi giovani, a far riflettere dovrebbero essere dei dati riportati lo scorso ottobre dall’Agia (Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza). Da una consultazione condotta su un campione di circa 7.500 studenti delle scuole superiori è emerso che il 76,4% di loro percepisce la scuola come principale fonte di ansia e stress; il 24,1% vive male l’esperienza scolastica; il 44% si sente inadeguato e insicuro; il 46,5% dichiara di provare nervosismo costante a scuola (superando la media mondiale del 37%). Sempre secondo la stessa ricerca, le cause di questi malesseri sarebbero da attribuire: all’ipercompetizione, ovvero alla pressione legata al voto e al confronto costante con i compagni; a un sistema di valutazione che si esprime in numeri, senza soffermarsi adeguatamente sulla peculiarità di ciascun studente, e alla paura di un giudizio negativo da parte di insegnanti e compagni.
In anni recenti, proprio per ridurre la pressione legata alla valutazione e incentivare una maggiore attenzione al processo di apprendimento e di crescita personale, sono stati sperimentati in alcuni istituti percorsi scolastici “senza voto”, che hanno applicato valutazioni formative e descrittive al lavoro degli studenti, anche allo scopo di sollecitare in essi lo sviluppo di una motivazione intrinseca allo studio, non più legata alla ricerca di un voto, ma alla curiosità e al piacere di scoprire.
Le criticità del sistema scolastico sembrano emergere anche nella fase successiva a quella degli Esami di Stato, ovvero all’interno dei percorsi accademici e universitari. I dati statistici ci dicono che il tasso di abbandono al primo anno è in crescita (7,3 %). Nello specifico, le indagini di AlmaDiploma indicano che nel primo anno il 6,8 % degli studenti abbandona completamente, mentre il 9,3 % cambia corso o ateneo.
Ma quali sono le ragioni di questi fallimenti? La mancanza di un orientamento personalizzato, di un tutorato e supporto psicologico individualizzato, cui si aggiungono condizioni economiche deboli e prospettive lavorative scarse. Gli studenti provenienti da contesti familiari svantaggiati, dal Sud o nella condizione di pendolari registrano tassi più alti di abbandono o cambi. Per quanto riguarda le facoltà Stem, pare che la preparazione scolastica di base, più nozionistica che improntata all’acquisizione delle competenze, non prepari adeguatamente al rigore universitario.
A contribuire al disorientamento dei giovani anche l’ingannevole “mitizzazione” di alcune facoltà universitarie, indicate come “vincenti” dal punto di vista professionale rispetto ad altre e quindi scelte, non in base a reali attitudini o vocazioni, ma in virtù delle prospettive offerte.
Il problema, osserva Mauro Di Lorenzo, psicologo dell’Istituto Minotauro di Milano e autore del volume “Giovani adulti in crisi” (Franco Angeli, 2024), è la forma che la società ha impresso all’attuale specifica configurazione dei percorsi scolastici e universitari “caratterizzata da una cultura della performance”. Un’impostazione che contrasta con l’idea dell’università “come spazio per esplorare” le possibilità del proprio futuro, e rischia di trasformare questo corso di studi in un passaggio “obbligato perché fornisce il titolo necessario per il futuro”.
Cristiano Corsini, docente di pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre e autore del volume “La fabbrica dei voti” (Editori Laterza, 2025), ricordando la lezione di don Lorenzo Milani e di Alberto Manzi, sottolinea l’importanza di puntare ad “apprendimenti significativi” e di rendere “educativa” la valutazione, ovvero attenta a individuare nel singolo le sue potenzialità e le sue fragilità, liberandosi dai pregiudizi e lavorando anche sugli errori, rendendoli occasione di apprendimento e crescita reale.