In un Veneto che necessariamente deve aprire se stesso e aprirsi al dialogo superando regionalismi e campanilismi ha dentro di sé la possibile strada: cultura, paesaggio e agricoltura, assieme, danno vita a processi virtuosi.
Una “città dipinta”, capitale dell’affresco per un secolo intero, il Trecento. Fu Giotto, maestro fiorentino universalmente riconosciuto, dapprima affrescando la cappella privata voluta da Enrico Scrovegni e successivamente la basilica di Sant’Antonio, a mutare il corso dell’arte padovana e, di riflesso, di quella veneta. Padova, irrorata dal tratto del pittore, si ritrovò al centro di una straordinaria stagione artistica, declinata e rimodellata via via da Piero e Giuliano da Rimini, Guariento, Giusto de’ Menabuoi, Jacopo Avanzi, Altichiero e Jacopo da Verona, creando un radicale rinnovamento stilistico di portata nazionale e internazionale. Realtà eterogenee cucite con un filo rosso, assoluto in Italia e nel mondo: ed è proprio mettendo in risalto questo patrimonio che la “Padova Urbs picta” è candidata a patrimonio mondiale Unesco, l’organizzazione delle Nazioni Unite che tutela le eccellenze culturali e naturali esistenti.
Giorgio Andrian, geografo ed ex funzionario Unesco, ha coordinato l’iter per la “riscoperta” di un’identità unica.
Partendo dalla Cappella degli Scrovegni ci si addentra nelle venature pittoriche passando dalla chiesa degli Eremitani, dall’Oratorio di San Michele e ancora Palazzo della Ragione, il battistero del Duomo, la cappella della Reggia Carrarese, la basilica del Santo e l’Oratorio di San Giorgio. Otto luoghi per una candidatura seriale che porterebbe Padova, che già accoglie l’Orto botanico, a essere l’unica città al mondo con un doppio sito Unesco.
“Padova Urbs picta” è quel che sarà (se sarà). Ma il presente racconta che il Veneto è già tra le regioni italiane maggiormente rappresentate nella lista Unesco: oltre all’Orto botanico, ci sono Venezia e la sua laguna, Vicenza e le ville di Andrea Palladio, Verona, le Dolomiti. Dal 2011, inoltre, sono entrati i siti palafitticoli preistorici dell’Arco alpino (una candidatura transnazionale, coordinata dalla Svizzera), mentre a luglio 2017 risale l’iscrizione delle Opere di difesa veneziane tra il XVI e XVII secolo (altro sito seriale che attraversa la sponda adriatica tra Italia, Croazia e Montenegro).
Medaglie e lustrini da esibire al petto, certo, ma che se non adeguatamente supportate a livello di programmazione e coordinazione tra risorse, progetti e turismo, rimarrebbero riconoscimenti autocelebrativi: «Sono contrario all’approccio quantitativo – insiste Andrian – perché l’Unesco non è un’olimpiade ed è inutile affermare che la Cina è prossima a sorpassare l’Italia. Anche suddividere i patrimoni secondo fenomeni di regionalizzazione non ha senso: il Veneto ha istituito un’associazione che raggruppa i cinque siti senza coordinarsi con Roma, dove abbiamo l’unica sede della Commissione nazionale e unico organo deputato per tutte le attività. E poi, dal 2019, una nazione potrà proporre un solo sito candidato e questo, soprattutto in Italia dove c’è una lunga lista dei desideri, potrebbe creare disaccordi».
È questo il messaggio da cogliere tra le righe: un passo maturo, dunque, oltre i campanilismi, le esaltazioni regionali e gli sterili conteggi numerici. Il salto di qualità dal respiro europeo sta piuttosto nel creare una “community” di riferimento per valorizzare dignitosamente ciò che natura, ambiente o l’estro degli uomini ci ha consegnato nel tempo: a settembre 2017, l’istituto universitario di architettura (Iuav) di Venezia ha annunciato che svilupperà un coordinamento dei siti, oggi inesistente, con l’obiettivo di allargarlo progressivamente anche agli altri poli italiani per una politica che sia davvero comunitaria. Università, ma non solo: nella rete dell’area vasta del Veneto e del paese intero vanno agganciate fondazioni di riferimento, enti e vari stakeholders.
Al di là di come andrà a finire la candidatura, la “città dipinta” ha infatti creato un precedente, un dialogo tra ruoli eterogenei e spesso distanti come gli enti che gestiscono gli affreschi, la Diocesi, il Comune e l’Università. «Non fermiamoci al titolo Unesco, ma guardiamo ai meccanismi che abbiamo attivato. Sarà la volta buona per creare un biglietto unico in modo tale che il turista possa vedere tutte le bellezze del Trecento? A che serve parlare di patrimoni se poi la percentuale di addetti alla cultura, già infima, cala invece di crescere? Abbiamo avviato relazioni sul territorio? Questo deve pensare Padova, che è una città ricchissima, ma di una ricchezza statica».
Un patto territoriale come quello che lega la terra di mezzo attraversata dal Delta del Po, a cavallo tra Veneto ed Emilia Romagna, riconosciuta nel 2015 Riserva della biosfera secondo il programma Unesco “Mab” (Man and biosphere). Un’area di sperimentazione della sostenibilità a beneficio delle comunità locali – che inizialmente non volevano nemmeno entrare in questa partita… – ma che guarda al futuro con l’ambizione di diventare un’area pilota su scala nazionale e internazionale per la tutela della biodiversità e del paesaggio, dell’assetto idrogeologico e dell’adattamento ai cambiamenti climatici.
Un’area che racconta storie legate alla terra argillosa rodigina o torbosa ferrarese, come la coltivazione del riso del Delta del Po igp e di un Consorzio, nato nel 2012 grazie allo sforzo di un gruppo di aziende venete cui si affiancarono le principali aziende risicole ferraresi, che oggi conta 33 soci e che nel 2017 ha prodotto più di 7.100 tonnellate di risone e 1.420 tonnellate di riso. Una forza che risiede nella profonda consapevolezza dei ruoli all’interno della filiera trasparente e con pochissimi passaggi da coltivatore a prodotto finito: «Sono i nuovi aspetti di un’agricoltura trasformata da sussistenza a impresa – evidenzia Paolo Martin, ex dirigente del Consorzio agrario del Nordest – che sempre più si sta confrontando con il mercato aperto, come ha chiesto la Comunità europea. Dalla piccola proprietà contadina che viveva di tanti figli e tanta manodopera, oggi si sta sviluppando un’economia radicata con imprese sempre più vaste e specializzate. Ma soprattutto l’agricoltura non è solo produzione, ma produzione di qualità, diversificata sul territorio conferendogli un nome e un’identità: pensiamo al distretto veneto del Prosecco che per certi aspetti è molto simile a quello che i francesi fecero con lo Champagne».
E mentre prosegue la querelle sulla candidatura Unesco delle Colline del Conegliano Valdobbiadene, se estendiamo lo sguardo i numeri dicono che l’agricoltura veneta nel 2016 vale 5,5 miliardi di euro e che si sta relazionando con nuove figure innovative come quelle del progetto “Agriweb advisor”, lanciato da Coldiretti, che accompagnano la crescita digitale delle imprese attraverso strategie per la promozione online o con piattaforme e-commerce e profili nei social network. La stessa Corte dei conti europea ha pubblicato un documento in cui viene sottolineata la necessità di basare la futura spesa agricola europea (Pac) su valori-obiettivi di performance ambiziosi e pertinenti.
E il biologico? Cresce assieme alla domanda: nel Veneto la superficie a coltivazione bio nel 2016 è aumentata di oltre il 35 per cento, con 23.654 ettari, rispetto l’anno precedente. Valori etici, attenzione del consumatore a salute e ambiente, filiera corta e prodotti tracciabili “km0” sono le parole chiave, ma è necessario procedere con cautela: «È un settore che continuamente rischia di esser contaminato da operazione di dubbia sostenibilità – ammonisce Franco Zecchinato della cooperativa “El Tamiso”, che ha portato il bio a Padova agli inizi degli anni Ottanta – perché si corre dietro all’occasione o al finanziamento e non si progetta. Il Veneto è la seconda regione italiana per indotto economico relativo al bio, con le più grandi aziende sul territorio, ma se vediamo la classifica dell’incidenza delle aziende agricole siamo penultimi: questo grande movimento non trova ancora la commercializzazione locale, i nostri agricoltori sono restii, manchiamo a livello politico e culturale per riportare tutto questo nel tessuto produttivo, ma anche per valorizzarlo dal punto di vista paesaggistico».
In un Veneto che deve ammorbidire la sua atavica scorza dura, ecco che anche cultura, paesaggio e agricoltura indicano nuove possibili strade e invitano ad aprire e aprirsi al dialogo. O almeno ci provano.
