Chiesa
Un pellegrinaggio speciale ha condotto 150 sacerdoti e seminaristi dei seminari diocesani delle Diocesi del Triveneto a Roma in occasione del Giubileo dei seminaristi, dei presbiteri e dei vescovi che si tiene tra il 23 e il 27 giugno.
Cuore del pellegrinaggio il grande momento dell’incontro privato e più intimo con papa Leone mercoledì 25 giugno, di primo mattino, poco prima dell’Udienza generale. Un momento con il santo padre riservato solo ai Seminari del Triveneto (qui l’intervento integrale).
«È stato un incontro assai speciale, il papa ha fatto un grande dono ai seminaristi del Triveneto concedendo un incontro personale, familiare, intimo con lui all’ombra nell’aula Paolo VI, offrendoci delle parole che ci hanno edificati», commenta don Mattia Francescon, responsabile dell’Ufficio diocesano per le vocazioni, presente a Roma con i 14 seminaristi padovani,. Il rettore uscente mons. Raffaele Gobbi, il padre spirituale don Giovanni Molon e l’educatore don Maurizio Rigato.
Dopo aver ricordato la grande storia di fede che lega le Diocesi del Triveneto dalla comune origine dal Patriarcato di Aquileia e la storia di santità che accomuna le Chiese di queste terre, il papa ha ringraziato i seminaristi per la disponibilità a seguire il Signore e li ha esortati a non aver paura di impegnarsi nella formazione e ad essere disponibili alla missione e al servizio, senza rifiutare il sacrificio.
Papa Leone si è presentato con un sorriso contagioso, capace di infondere serenità e forza allo stesso momento. Non sono mancate le strette di mano e le battute di spirito: evidente l’affetto del papa per i giovani e in particolare per questi giovani in cammino verso il sacerdozio. «Papa Leone ci ha rivolto l’invito di allenarci alla disciplina, a non aver paura dello sforzo, del lavorare su di sé, del salire gradino per gradino, in un cammino che può non essere semplice – conclude don Mattia – Se gli angeli, nel sogno di Giacobbe, hanno dovuto salire la scala gradino per gradino pur avendo le ali, noi uomini non dobbiamo aver paura della fatica, di ciò che serve per diventare pastori dal cuore come Gesù».
Anche a don Marco Baggio, ordinato lo scorso 8 giugno nella cattedrale di Padova è rimasto impresso lo stesso passaggio: «L’incontro con papa Leone è stato assai interessante. Il santo padre ha dimostrato un’estrema semplicità e da subito ha dato l’idea di sentirsi particolarmente a suo agio in mezzo a noi. Delle sue parole, mi ha colpito il passaggio sulla disciplina, citando Giovanni Paolo I, ricordandoci che anche gli angeli di Giacobbe, nel sogno, non volavano, ma scalavano gradino per gradino la scalinata. Questa immagine mi ha ricordato l’importanza dell’impegno e del mettersi in gioco ogni giorno, stare mantenendo lo sguardo fisso su Gesù: è la sfida della preghiera a cui ci ha richiamato più volte in queste settimane dopo la sua elezione».
Al seminarista Matteo Conte è rimasto invece impresso un passaggio del pontefice sul cuore: «Ci ha invitato ad avere un cuore come quello di Cristo buon pastore e poi il papa ci ha ricordato che ogni cammino vocazionale ha dei protagonisti, noi che siamo in ricerca, ma mai da soli. Mi piace leggere questo passaggio in un’ottica anche ecclesiale: tutti siamo in un cammino di fede, nessuno lo compie da solo. E devo dire che il clima disteso e coinvolgente che abbiamo respirato in questi giorni di pellegrinaggio sono un ottimo esempio di questa condivisione».
«L’incontro con il santo padre è stato un momento particolarmente emozionante – aggiunge Matteo Melchiotti, altro seminarista – Papa Leone ha citato sant’Agostino, il quale invita a gettarsi in Dio senza timone, in totale fiducia e completo abbandono, senza la paura dei nostri sbagli, dei nostri peccati. Questo mi ha aiutato a sentirmi più libero ad avanzare nel cammino verso il sacerdozio, con la disponibilità a prendendomi cura di me stesso in questo percorso».

La testimonianza di fede di don Andrea Santoro
Alla partenza, domenica 22 giugno, seminaristi e presbiteri avevano fatto tappa a Siena per rivivere la testimonianza di santa Caterina con la messa presieduta dal card. Augusto Paolo Lojudice. La mattinata di lunedì 23 era stata interamente dedicata ad un parroco della Chiesa di Roma martirizzato in Turchia, terra di antichi Concili e crocevia di fedi: don Andrea Santoro, sacerdote romano ucciso a Trabzon nel 2006 mentre pregava nella sua chiesa, seduto su uno degli ultimi banchi e con la sua Bibbia in mano.
Due le chiese visitate dai pellegrini triveneti: la parrocchia di Gesù di Nazareth, fondata da don Santoro stesso, che vi arrivo nel 1981. Poi, la chiesa dei Santi Fortunato e Venanzio, dove riposano le sue spoglie. Don Andrea Santoro era mosso da una passione ardente per il Medio Oriente, culla della fede cristiana. Aveva il desiderio profondo di «essere Gesù dove Gesù non c’è, essere Chiesa dove la Chiesa non c’è». Per questo, partì per la Turchia all’età di cinquant’anni, dopo anni di ministero pastorale nelle periferie romane, spinto dal desiderio di vivere una presenza semplice e silenziosa, «contemplativa e sulla porta», come amava dire.
La chiesa della parrocchia di Gesù di Nazareth fu costruita nel 1988, pensata come un luogo che parlasse di dialogo: le pietre dell’altare provengono da Nazareth, e in un primo momento si era ipotizzato di dedicarla ad Abramo o ai Patriarchi e Profeti. Nella canonica, progettata da un architetto francescano, si respira uno stile sobrio e accogliente.
Don Giuseppe, parroco attuale, conserva ancora una Bibbia trafitta da un proiettile: era quella che don Andrea teneva con sé quando fu ucciso. Simbolo di una vita offerta, e della convinzione che “si diventa capaci di salvezza solo donando la propria carne”.
Il diacono permanente Marcello, che conobbe don Andrea fin da giovane, racconta:
«Celebravamo nella casetta per i rifiuti del quartiere, prima che questa chiesa di Gesù di Nazareth venisse edificata: don Andrea è stato il nostro primo parroco. Quando compivamo un pellegrinaggio con lui, in Egitto o in Palestina, chiedeva di essere essenziali: ci bastava un bagno e un pavimento su cui dormire. Lui era severo, con se stesso e con noi, ma trasmetteva la grandezza di ciò che cercavamo».
I ricordi comuni parlano di un uomo che aveva sempre con sé la Bibbia – letta, sottolineata, amata – e che desiderava pregare in turco, per entrare in punta di piedi nel cuore di quella terra.
Nella parrocchia dei Santi Fabiano e Venanzio, don Andrea arrivò nel 1993. Don Marco Vianello, allora suo collaboratore e poi suo successore nell’incarico, che arrivò nella stessa parrocchia poco dopo don Andrea, ricorda una realtà difficile, «quasi deserta, da ricostruire». Ma don Andrea aveva fame di inclusione. Scriveva lettere a tutto il territorio parrocchiale, invitava tutti, senza distinzioni, a partecipare. Durante la “missione cittadina” del 1996, durata ben tre anni, volle che ogni realtà parrocchiale si prendesse cura di una parte del territorio. «Con lui – racconta don Marco – sono stato più in strada che in chiesa: messe nei condomini, visite, incontri. La parrocchia, per lui, non era un luogo fisico, ma l’intero territorio umano e spirituale».
Eppure don Andrea alternava l’attività pastorale più intensa a momenti lunghi di preghiera, solo con la sua Bibbia, evidenziata versetto per versetto. Il desiderio di essere presenza della Chiesa di Roma in Turchia lo portò a vivere quasi da solo, in un contesto dove la fede cristiana non poteva essere manifestata apertamente. Lì, fondò l’associazione “Finestra”, per «guardare e lasciarsi guardare», imparando ad ascoltare in un mondo spesso segnato da muri.
Giunto in Turchia dopo una profonda crisi ministeriale don Andrea visse fino in fondo il dono della sua vita. Volle essere appresentante della Chiesa in un territorio grande come il Lazio, don Andrea visse anche momenti delicati, come la crisi internazionale scatenata dalle vignette su Maometto in Danimarca. Ma non rinunciò mai alla sua testimonianza semplice, fatta di dialogo e di presenza.
Quando il suo corpo fu riportato a Roma, fiumi di persone si raccolsero attorno alla camera ardente nella sua vecchia parrocchia. Il corteo verso San Giovanni in Laterano fu una silenziosa processione di volti, storie, vite toccate dalla sua.
Anche le sorelle, Maddalena e Imelda Santoro, presero la parola per ricordarlo. I pellegrini dei Seminari del Triveneto hanno celebrato l’Eucarestia presieduta dal Vescovo di Chioggia Giampaolo Dianin nella chiesa dei Santi Fortunato e Venanzio.

Il passaggio alla Porta santa e l’udienza con tutti i seminaristi giunti a Roma
Martedì 24 giugno è stata la volta del grande ingresso giubilare in San Pietro e l’udienza con il santo padre Leone. Il vescovo di Chioggia Dianin ha aperto e condotto la processione dei seminaristi del Triveneto, con lui il patriarca Francesco Moraglia. I pellegrini del Triveneto hanno compiuto i gesti propri dell’anno giubilare: pregare, rinnovare la fede, invocare la misericordia.
Un’esultanza gioiosa e travolgente ha animato la più grande basilica della Cristianità. Nonostante non fossero previsti canti o gesti di accoglienza i seminaristi hanno spontaneamente reso omaggio al papa cantando insieme, spontaneamente, i canti della tradizione della Chiesa in latino.
Ai seminaristi il papa ha rivolto una catechesi tutta centrata sull’esigenza di conoscere il proprio cuore attraverso una profonda vita interiore così da curare le proprie ferite e rinnovare tutta la vita: «Senza la vita interiore non è possibile neanche la vita spirituale, perché Dio ci parla proprio lì, nel cuore. Dios nos habla en el corazón, tenemos que saber escucharlo. [Dio ci parla nel cuore, dobbiamo saperlo ascoltare]. Di questo lavoro interiore fa parte anche l’allenamento per imparare a riconoscere i movimenti del cuore: non solo le emozioni rapide e immediate che caratterizzano l’animo dei giovani, ma soprattutto i vostri sentimenti, che vi aiutano a scoprire la direzione della vostra vita. Se imparerete a conoscere il vostro cuore, sarete sempre più autentici e non avrete bisogno di mettervi delle maschere. E la strada privilegiata che ci conduce nell’interiorità è la preghiera: in un’epoca in cui siamo iperconnessi, diventa sempre più difficile fare l’esperienza del silenzio e della solitudine. Senza l’incontro con Lui, non riusciamo neanche a conoscere veramente noi stessi».
Forte l’esortazione del Santo Padre ad una formazione integrale:
«Vi invito a invocare frequentemente lo Spirito Santo, perché plasmi in voi un cuore docile, capace di cogliere la presenza di Dio, anche ascoltando le voci della natura e dell’arte, della poesia, della letteratura e della musica, come delle scienze umane. Nell’impegno rigoroso dello studio teologico, sappiate altresì ascoltare con mente e cuore aperti le voci della cultura, come le recenti sfide dell’intelligenza artificiale e quelle dei social media. Soprattutto, come faceva Gesù, sappiate ascoltare il grido spesso silenzioso dei piccoli, dei poveri e degli oppressi e di tanti, soprattutto giovani, che cercano un senso per la loro vita».

La visita alla tomba di san Filippo Neri
Nel pomeriggio di martedì la visita a Chiesa Nuova e la preghiera sulla tomba di San Filippo Neri: i seminaristi sono stati accolti da una catechesi di Padre Simone Raponi della Congregazione dell’Oratorio, poi il Patriarca Francesco Moraglia ha presieduto l’Eucarestia alla quale hanno concelebrato l’arcivescovo di Udine Riccardo Lamba, il vescovo di Chioggia Giampaolo Dianin, l’arcivescovo di Gorizia Carlo Roberto Maria Redaelli, e il vescovo di Trieste Enrico Trevisi. «La vita del presbitero non si improvvisa – ha ricordato il Patriarca – si approfondisce nel rapporto con il Signore. Il presbitero si santifica facendo il presbitero, ancor più essendo presbitero».