Chiesa | MondoMatteo (2, 1-12) ci parla di “alcuni Magi” che giungono a Gerusalemme “da oriente” e che hanno visto sorgere la stella “del re dei Giudei che è nato”
Casa, secondo l’evangelista Matteo, o mangiatoia, in Luca e poi tramandato nell’immaginario collettivo, un luogo che non ha visto solo la Rivelazione di una nuova luce nel mondo, ma anche il pellegrinaggio di personaggi ancora misteriosi. Sempre Matteo (2, 1-12) ci parla di “alcuni Magi” che giungono a Gerusalemme “da oriente” e che hanno visto sorgere la stella “del re dei Giudei che è nato”. E non è solo una questione di omaggi regali. È qualcosa che i potenti non potevano avvertire, presi ormai dalla ricerca di una sazietà tutta terrena e destinata a naufragare nella noia e nella disillusione. L’evangelista ci mette di fronte a ciò che cambierà il mondo, perché “al vedere la stella essi provarono una grandissima gioia”, a partire quindi dall’interiorità e non dalla tangibilità del potere.
In Matteo non ci sono enumerazioni: sappiamo solo che i Magi portarono con sé i simboli del potere terreno -l’oro- , dell’omaggio alla divinità -l’incenso-, della morte e dei suoi riti, -la mirra-. Ma non sappiamo se fossero tre o più, perché secondo alcuni, come Gennaro Matino in un libro di qualche anno fa (“L’ultimo dei Magi”, San Paolo) erano quattro, con uno di loro fermato però dai soldati di Erode per ricattare gli altri Magi nel caso avessero scelto di non tornare a informarlo. Mimmo Muolo (in “Per un’altra strada”, Paoline) ci ha raccontato invece di un magio in ritardo che cercherà di incontrare gli altri, in una storia di ricerca perenne di senso vicina a quella di ognuno di noi.
I nomi dei tre sapienti, secondo altre fonti anche re, non sono citati dai quattro Vangeli: ne abbiamo traccia nell’apocrifo Vangelo dell’Infanzia armeno, in cui si parla di Melkon, Balthasar e Gaspar, tre fratelli che regnavano rispettivamente su persiani (la maggior parte delle fonti parla del Magi come rappresentanti dello zoroastrismo iranico), indiani, arabi.
Come si vede, elementi diversi si incrociano in un contesto che incontra anche la storia del dono celeste. Secondo alcuni studiosi, ad esempio Claudia e Luigi Manciocco (in “Una casa senza porte”, Melusina Editrice), il ritrovamento nel villaggio di Ҫatal Hϋyϋk, in Asia Minore, di capanne con un foro al centro in corrispondenza del focolare è testimonianza del culto arcaico dell’antenato che torna dopo la purificazione del corpo nelle zone consacrate a tale rito. Questo sarebbe collegato con una befana -corruzione del termine greco “epifania” che vuol dire rivelazione, manifestazione- vista come anima dell’antenato che torna a portare doni nel periodo invernale. La non avvenenza della Befana sarebbe dovuta al fatto che essa ricorda la maschera mortuaria che veniva posta sulla testa del caro scomparso. In alcune narrazioni si incontra con i Magi, perché invitata ad andare con loro a Betlemme rifiutò, per poi pentirsi e cercarli recando intanto doni ai bambini poveri.
La Befana sarebbe un antico residuo di culti preistorici che riguardano la Grande Antenata (in ambito greco-latino sarebbe divenuta secondo alcuni Demetra-Diana) che purifica i corpi e che porta doni in ricordo degli antenati. E la scopa non sarebbe che il lontanissimo ricordo del legno, della radice, del collegamento con l’essenza stessa della natura.
I doni dei Magi invece sono un omaggio, reale e simbolico insieme, alla manifestazione -epifania in greco- del divino che diventa umano e che quindi accetta la finitudine di tale natura.
I Magi segnano il riconoscimento di altre culture della manifestazione umana della divinità, e lo concretizzano attraverso l’atto di inginocchiarsi di fronte ad un bambino: re o sacerdoti che si prostrano non all’imperatore, ma ad una piccola, indifesa creatura, certo, ma segno di una attesa che finalmente ha trovato il suo compimento.
