Dall’Ucraina a Suez: il complesso militare-industriale e la lezione di von Clausewitz

Il complesso militare-industriale trova negli argomenti di crescita economica il linguaggio persuasivo rivolto ai governi congiunturalmente sensibili

Dall’Ucraina a Suez: il complesso militare-industriale e la lezione di von Clausewitz

“La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”: così estrapolata, la frase è servita a volgarizzare il profilo cinico e guerrafondaio di von Clausewitz. Ma i più ignorano che essa sintetizza lo sforzo di moderare, nella Prussia di inizi ’800, i riformatori che, in nome dell’autonomia dei militari, avrebbero inteso vincolare il governo all’antinomia secca tra vittoria e sconfitta, negando alla politica il ruolo direzionale che le spetta in virtù di una più ampia visione degli scopi da perseguire nell’interesse della nazione.

Un secolo dopo il tema si rimaterializzava nella penna di Pulitzer che, seguendo la Conferenza di Parigi del 1919, denunciava come il “triangolo di ferro” tra politici, industriali e militari stesse precludendo scelte di pace duratura. Nel ’34 la Commissione Nye – poi bruscamente sciolta – avrebbe illustrato l’influenza dell’industria bellica nell’entrata in guerra del 1917. Ancora nel ’61, nel discorso di commiato presidenziale, il (generale) Eisenhower ammoniva sul condizionamento del military-industrial complex nella politica estera, preludendo alla desecretazione nel ’75 del Nsc-68, il documento che 25 anni prima indicava a Truman di stabilire un filo diretto con il Pentagono aggirando il Congresso e puntare sul keynesismo di guerra allargato alle commesse Nato e al riarmo europeo.

Nel solco degli studi pionieristici di Wright Mills, le analisi sul military capitalism evidenziano come i posti nei cda ricoperti dopo il congedo e la transnazionalizzazione degli apparati di difesa producano un ceto militare apicale, trasversale agli Stati ma culturalmente uniforme, fautore di indirizzi coerenti alla propria forma mentis epistemico-professionale facendo sponda ai comparti cointeressati al bellicismo. Con ciò precostituendo il cd “rischio geopolitico” dovuto alla concomitanza di logiche eterogenee capaci di destabilizzare quel minimo di ordine di cui pure i mercati speculativi necessitano, quando non occorre ovviare alla saturazione aprendo spazi vergini.

In ogni caso, con o senza presenze dirette negli esecutivi, il complesso militare-industriale trova negli argomenti di crescita economica il linguaggio persuasivo rivolto ai governi congiunturalmente sensibili.

Le notizie dei giorni scorsi suggeriscono riscontri in proposito. L’intercettazione degli ufficiali tedeschi con benemerenze Nato che disquisivano di come abbattere il Ponte di Crimea – per ridare slancio emotivo alla guerra – superando le resistenze di Berlino sono emerse non a caso dopo il rifiuto di Scholz di fornire proprio i missili Taurus oggetto del colloquio di cui sopra. Nelle stesse ore il Nyt e altre testate hanno pubblicato inchieste atte a documentare la ventennale presenza in Ucraina di personale intento a clientelizzare i vertici delle forze armate locali.

A ridosso alle preoccupazioni espresse dallo slovacco Fiço per clima eccitato dagli accordi militari bilaterali a durata decennale siglati con Kiev da diversi governi Ue senza avalli parlamentari, Macron ha ostentato la disponibilità a inviare truppe in Ucraina, tornando al dogma della sconfitta russa come unica garanzia per il futuro europeo, invitando i sodali a osare di più. Sorprende la metamorfosi dell’Eliseo, che a dicembre 2021 frenava sull’ingresso ucraino nella Nato, contraddicendo le “porte aperte” di Stoltenberg e Blinken, e che fino all’anno scorso, pur redarguito, auspicava ipotesi negoziali. Ma la sorpresa svanisce se si osserva la contestuale candidatura dell’industria francese ad arsenale dell’Europa in riarmo, avanzata in tempestiva sintonia con l’agenda armigera lanciata da von der Leyen (già ministra della difesa contestata in patria sul tema appalti) mediante un ardito parallelo con la vittoria nella battaglia vaccinale.

Anche il Medioriente offre spunti di riguardo. La minaccia di Ansar Allah ai traffici via Suez (il 30% degli scambi marittimi globali) ha promosso lo Yemen a questione non più solo locale, benché già noto per la sanguinosa guerra civile, partecipata con le partite d’armi vendute alla Lega saudita che vi intervenne. Ora gli Huthi sono un problema globale, quanto le ricadute del blocco della rotta del Mar Rosso in termini di costi supplementari sulle catene logistiche (10 mld di euro ogni 3 giorni di ritardo). Tanto più ora, considerando che l’importanza di Suez si è accresciuta stante l’embargo sui prodotti russi e la ridotta navigabilità di Panama.

Alla reazione disposta con Prosperity Guardian e Aspides – al netto delle autorizzazioni parlamentari (aggirate o deliberate a operazioni in corso) che le riguardano – non pare estraneo il fattore militare-industriale. Almeno nella misura in cui l’aumento sistemico dei prezzi, alimentando l’inflazione con la correlata contromisura del rialzo dei tassi, strozzerebbe gli investimenti per finanziare il riarmo, complicando l’ipotesi di emettere Eurobond a esso funzionali.

Evidente l’efficacia della leva economica intercettata dagli Huthi, confermata già dal nome dell’iniziativa che si propone di fare scudo alla prosperità sotto attacco. Prosperità che certo non riguarda la popolazione di Gaza, a cui non spetta la stessa sollecitudine che semmai dovrebbe muovere a favore della sua mera sopravvivenza. Per essa non bastano gli aiuti umanitari i quali, a giudicare dai veti e dalle astensioni sul cessate il fuoco, sembrerebbero motivati da un’impersonale calamità naturale, anziché dalla distruzione mortifera inflitta con le armi, che ora va mietendo vittime anche per fame e malattie. Il tutto mentre Tel Aviv, assistendo al crollo verticale del pil, rilancia contro Hezbollah il piano di nuovi insediamenti in Cisgiordania e apre ai coloni che tornano a disegnare proprietà sulle macerie fumanti nella Striscia.

Per quanto ignorato, il tragico gesto di Aaron Bushnell, che dandosi la morte ha pensato di sottrarsi alla connivenza genocidaria come militare, cittadino e uomo, è stato un disperato messaggio alla politica. Alla quale, come ricorda instancabilmente Papa Francesco, spetta riappropriarsi del coraggio delle scelte fatte con l’intelligenza strategica dei beni da coltivare per i rispettivi popoli. Se lo aveva compreso persino il cinico von Clausewitz, a maggior ragione dovrebbe farlo la “civiltà dei diritti”, in un’epoca in cui le capacità sterminative impongono di deviare dalla strada a senso unico della guerra, che detta investimenti spendendo il capitale delle sofferenze altrui.

Giuseppe Casale*

*Pontificia università lateranense

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Fonte: Sir