16 dicembre 1943, una bicicletta porta ancora oggi i segni del bombardamento all'Arcella
Era il 16 dicembre 1943, all’ora di pranzo, 72 aerei dell'aviazione anglo-americana in sei minuti scaricarono sui binari della stazione ferroviaria e sulle case della prima Arcella duecento tonnellate di bombe. I morti in solo quella occasione furono duecento. Su una bicicletta, preservata e rimasta intatta dopo decenni, ci sono ancora i segni degli istanti concitati tra schegge, mattoni, fughe e macerie
I segni della guerra hanno forme e sostanze differenti. Sono cicatrici, sono lutti, sono ricordi impressi nella memoria. Ma possono anche essere “graffi” reali, vivi nel presente dopo aver solcato decenni di storia. Era un rigido giovedì seppur accogliente con una mattinata nitida e soleggiata, quel 16 dicembre 1943, il tempo ideale per gli aerei degli Alleati dell'aviazione anglo-americana per scaricare bombe mortali . Erano le 13, ora di pranzo, e 72 aerei in sei minuti deflagrarono sui binari della stazione ferroviaria e sulle case della prima Arcella duecento tonnellate di bombe. I morti in solo quella occasione furono duecento. Furono rase al suolo quasi tutte le case che si trovavano tra la stazione e la chiesa di Sant'Antonino, che, assieme al suo campanile, rimase incredibilmente illesa.
Una valigia sempre pronta per scappare
In una di quelle abitazioni lì nei paraggi vivevano la mamma e i nonni di Francesca Dalle Rive che da loro ha ereditato il racconto concitato di quegli istanti e anche una bicicletta:
«Mia madre Fernanda aveva 9 anni, era figlia unica, e assieme a nonno Giuseppe e nonna Ida abitavano con altri parenti in una casa nella zona di Sant'Antonino. Lì attorno c’erano solo campi ed erano la via di fuga più immediata durante il bombardamento, si scappava come si poteva, nell’incertezza generale: il nonno era stato previdente, aveva una valigia già pronta da giorni con qualche vestito di ricambio e pochi soldi. Mia madre mi diceva che gli aerei volavano talmente basso che sembravano uscire dalle case, mentre tutto attorno saltava per aria».
I secondi, i minuti del bombardamento erano interminabili. Tutti, quel giovedì, vennero colti alla sprovvista: la nonna di Francesca stava lavando la biancheria, era nel retro e indossava un paio di zoccoli. Ai primi boati tutti corsero via, lei con una mano reggeva la bici, con l’altra stringeva la piccola Fernanda che, nella concitazione, si separò dai genitori e scappò via. Nel rincorrerla, la nonna Ida perse le scarpe, venne aiutata dal nonno a rialzarsi, dimenticandosi della valigia. Ma, nella paura e nel terrore, quel gesto fu quasi provvidenziale perché la bicicletta, lasciata poco distante, fu raggiunta da una scheggia, un mattone impazzito proiettato da un’esplosione limitrofa, che colpì in pieno il telaio.
Erano bombe “a farfalla”, grappoli di piccole dimensioni, racchiuse in un apposito contenitore, il quale dopo pochi secondi dallo sgancio si apriva, liberandole. Le M83, questo il nome tecnico di tipo americano, si sparpagliavano nel cielo, scendendo lentamente verso il suolo rallentate ciascuna dal proprio involucro esterno. Giunte al suolo, alcune esplodevano all’impatto, mentre la parte più grande si adagiava sul terreno senza dare luogo ad alcuna detonazione, rimanendo però attiva ed esplodendo dopo un certo ritardo. Bastava una vibrazione, un movimento anche minimo e la farfalla esplodeva, riempiendo il corpo della vittima di innumerevoli schegge.
Quasi tre anni da sfollati
Il segno della guerra è ancora oggi su quella stessa bici che mamma Fernanda e Francesca hanno preservato senza “rimetterla in sesto”, senza eliminare quella traccia e che quasi in un secolo di vita ha portato in sella prima nonna Ida, poi mamma Fernanda, poi Francesca e successivamente suo figlio. Leopoldo Saracini nel libro “Padova Nord”, racconta che il primo attacco aereo inaugurò fino alla primavera del 1945, quasi due anni di terrore per gli abitanti costretti a fuggire nelle campagne per trovare rifugio. Il bilancio fu il più grave tra tutti i quartieri della città: circa 400 morti e oltre 500 tra feriti e invalidi; le bombe rasero al suolo il 90 percento degli edifici, compresi scuole e cimitero.
Francesca racconta che la casa della sua famiglia fu l’ultima a crollare, proprio al termine dell’ultimo bombardamento. Una beffa a cui seguirono quasi tre anni vissuti da sfollati: «Avevano parenti in zona San Carlo e inizialmente decisero di trasferirsi nel punto più lontano possibile dalla stazione; successivamente invece sono stati accolti a Pontevigodarzere dalla sorella di mio nonno. Non avevano il coraggio di ritornare nel luogo dove sorgeva la loro casa, c’erano solo macerie e il dolore e il senso di smarrimento erano davvero profondi».
Nonno Giuseppe, mamma Fernanda e nonna Ida nella loro seconda provvisoria abitazione a Pontevigodarzere