Il carcere come porta santa. Don Claudio fra i detenuti, e quella decisione rivoluzionaria

«Dovremmo individuare una chiesa qui, per farla diventare luogo dell’anno giubilare». Una frase secca, quasi buttata lì dal vescovo Claudio, vagando per le celle del carcere Due palazzi, in una giornata interamente trascorsa con i detenuti, lontano dalle telecamere della prima domenica vissuta "dietro le sbarre". Ecco il racconto della genesi di una decisione che lo stesso don Claudio ha annunciato sabato scorso a Openfield: in carcere ci sarà una porta santa.

Il carcere come porta santa. Don Claudio fra i detenuti, e quella decisione rivoluzionaria

Il pellegrinaggio dell’anima non gonfia i piedi, non affanna il respiro, non altera le emozioni estetiche; per viverlo non serve il fascino dei luoghi, il richiamo dei tempi, la suggestione dei riti: basta poco, anzi il molto dell’essenziale. La voglia di andare, di uscire, di incontrare, di accogliere, di non infastidirsi per l’incognito.

Don Claudio Cipolla, il 4 novembre, va in carcere e si fa pellegrino. Vaga per celle e corridoi, incontra chi è recluso, chi sorveglia, insegna, assiste, chi condivide lavoro, chi si dona gratuitamente; lo fa con una libertà che non ammette schemi, protocolli, formalismi, strette di mano di circostanza. Non è un caso, piuttosto una volontà; che sta tutta all’insegna della misericordia praticata, quella autentica, di sostanza.

Lo si capisce subito, di prima mattina, all’incontro d’esordio. Il vescovo entra nella palazzina degli internati, gli ultimi tra i carcerati, quelli che non possono beneficiare della libertà perché, pur avendo scontato la pena, non sono giudicati abili a vivere fuori. I “liberi in carcere” lo accolgono e raccontano; con loro i volontari di Piccoli passi, i manovali che vanno al Due Palazzi solo per ascoltare chi sta dentro o vivono con i reclusi in permesso, ospitandoli per qualche ora o giorno nella casa a disposizione dalle parti del Due Palazzi. Gli chiedono di andare a visitare la disadorna cappella di quella triste palazzina a margine della prigione vera; proprio a questo punto don Claudio rivela che questo suo pellegrinaggio non è per nulla casuale. «Dovremmo individuare una chiesa qui, per farla diventare luogo dell’anno giubilare». Frase secca, buttata lì senza preavviso e sgombra di retorica, ma che esplode: vuol dire che il carcere avrà una “porta” che si aprirà nell’anno che Francesco ha voluto dedicare alla misericordia. A Padova vi saranno tre ambiti tradizionalmente giubilari: il duomo, la basilica di sant’Antonio e la chiesa di san Leopoldo Mandic, a Santa Croce; più una chiesa in carcere. Non sarà certo un uscio aperto a tutti e a chiunque, ma per il pellegrino dell’anima quel varco sarà simbolicamente forse il più prezioso.

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Don Marco Pozza, il parroco della prigione, ha un attimo di ridente imbarazzo, il vescovo tira dritto, nella tranquilla normalità di una scelta per lui quasi ovvia. Un Padre nostro, due parole (citando un pastore valdese) sulla straordinaria capacità del Signore di «fare miracoli per far capire a noi il valore del bene» e si va oltre.

Nella sala riunioni ci sono gli agenti, con il direttore; quotidiani “minatori” che tra mille difficoltà vivono la fatica di tirare fuori il buono anche quando è nascosto, sepolto, negletto.

«Venga nella mia casa» invita il detenuto del settimo piano, quello dove stanno i reclusi in regime di massima sicurezza, indicando una stanza di tre per tre; dopo qualche istante don Claudio è seduto sulla brandina della cella con una fetta di crostata e un caffè; non poteva mancare a questo appuntamento: Francesco (cresimato poche settimane or sono) lo aspettava con la trepidazione dovuta all’ospite di riguardo; il vescovo discorre, sorride, incrocia storie. Poi scende, al piano dove stanno quelli che nessuno vuole, neppure alla messa domenicale; è il luogo dei condannati per reati genericamente “sessuali” o quelli che sono collaboratori, che però qui si chiamano “infami”; don Claudio è diverso: lui c’è e condivide, anche l’esclusione.

Perché essere “fuori” è una condizione fatale, in prigione, non soltanto nelle dinamiche della vita dietro le sbarre, ma anche nei non rapporti che questo piccolo mondo ha con tutto il resto. Per questo, la fatica del Due Palazzi è in buona parte tutta nella direzione di aperture che abbiano la solidità di legami. Lo fa la scuola superiore, viva da 15 anni, dove chi sta dentro può studiare come chi sta fuori; lo fa Ristretti Orizzonti, l’associazione che mette insieme pensiero e lavoro. E qui, incontrando una classe dei ragazzi del Newton di Camposampiero, il vescovo pellegrino mette docilmente il cuore nello snodo più delicato, quello che (dovrebbe) legare la prigione e tutto il resto. C’è una studentessa che cerca di spiegare, ma si lascia andare alle lacrime, allora Claudio dice la sua. «Il carcere viene escluso, messo da parte, perché non lo vogliamo vedere, dato che ci rappresenta. Tutti siamo dipendenti ogni volta che viviamo poveri di sogni; queste sbarre non sono le uniche della vita».

In Ristretti orizzonti il vescovo si trova anche a parlare di affettività, quella negata; dell’impossibilità per chi magari è condannato al “fine pena mai”, questa nomea ipocrita dell’ergastolo, a non poter incontrare la moglie e i figli scambiando una carezza, alla chiusura delle relazioni. Una prigione che castra il rapporto con gli altri, pretendendo che dopo, quando uno esce, sia abile a intessere quelle relazioni alle quali è stato diseducato in anni di isolamento anche del cuore.

Poi l’incontro, che pare perfino liberante, con il lavoro; che nel carcere di Padova esiste, è praticato. Cooperativa Giotto e Work Crossing accolgono don Claudio, lo portano nella pasticceria, nel capannone dove si montano le biciclette, al call center. Esperienze ormai radicate, solide, invidiate da altre prigioni, esercizi di dignità possibile.

La lunga mattinata termina con il vescovo seduto a tavola per un pranzo veloce, rigorosamente soltanto con detenuti, che raccontano ancora le loro storie. Alla fine, don Claudio prega e benedice. «Mi aspetto molto in questo anno della misericordia, proprio da questo luogo, perché voi sapete bene di che cosa stiamo parlando».

Il pellegrinaggio dell’anima finisce; ora il carcere ha una nuova porta, questa volta inequivocabilmente aperta, custodita da un usciere giusto (oltre la legge) ed esigente (oltre il dovuto), com’è appunto la misericordia.   

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