Partiti, l’ennesima riforma mancata

Questo sabato si apre a Imola la festa nazionale de L’Unità, e quasi in contemporanea si chiude domenica quella padovana. Ma all’appuntamento con la sua festa nazionale il Pd arriva dopo un’estate ricca di notizie poco confortanti: feste locali cancellate per mancanza di volontari, altre ristrette ai soli fine settimana, ministri accolti da sale vuote (è successo alla festa provinciale di Modena con Poletti) per finire con il grande gelo tra Pd e Cgil, che a Imola non avrà nemmeno il tradizionale stand. Resistono le feste locali, faticano invece quelle di respiro provinciale. Qualcosa di simile accadrà anche a Padova, dove bar, ristorante e pizzeria non vedranno più impegnati i volontari. Ma dietro al tramonto delle feste, c'è un tema ben più importante: la fatica dei partiti a ripensare la propria identità.

Partiti, l’ennesima riforma mancata

A Padova il “problema” si è posto solo marginalmente, visto che il Parco d’Europa che ha ospitato la festa provinciale dell’Unità è in gestione a un privato.
Ma questa estate è stato un susseguirsi di notizie, gridi d’allarme e spesso di dolore per il tramonto di una delle tradizioni politiche più longeve dell’Italia repubblicana. Che nemmeno nelle regioni “rosse” si riesca più a tappezzare l’estate di feste di partito perché gli impegni sono tanti, i volontari pochi, i costi in aumento e l’affluenza in costante diminuzione fa certo effetto. Non dovrebbe però sorprendere più di tanto.

Ci sono ragioni contingenti che è bene non sottovalutare, prima di esprimere giudizi lapidari sulla fine dei partiti e delle ideologie.

Si può partire dalla demografia: una generazione di appassionati militanti ormai è troppo anziana per passare le estati dietro le griglie roventi, ma quelle successive sempre più spesso hanno altri problemi a cui pensare. Perché le ferie sono brevi e spesso difficili da programmare, i carichi familiari sempre più complessi, i percorsi professionali frammentati e insicuri, e la pensione a sessant’anni è ormai un miraggio. Una serie di fattori che rendono il volontariato – non solo quello in politica, peraltro – non più uno spazio che arricchisce la propria vita ma un impegno per il quale non si hanno più tempo, energie, stimoli a sufficienza.

Lo raccontava lo scorso maggio il Rapporto annuale dell’Istat, fotografando un paese in cui la crisi economica ha prodotto ulteriore disuguaglianza, facendo anche del volontariato un “lusso” per ricchi e uno svago per anziani, che taglia fuori in maniera sempre più evidente la classe media e i giovani. Un bel problema, perché ci stiamo privando di una fetta preziosa di vita.

Certo, non è questo il solo fattore di crisi.
Giocano anche stili di vita profondamente modificati, gioca una società che ha smarrito il gusto della condivisione comunitaria, gioca una comunicazione politica sempre più incanalata in rapporti virtuali affidati a internet e ai social media.

Ma, fatta questa premessa, rimane il dato eclatante di un simbolo sempre più appannato che rimanda inevitabilmente al tramonto della partecipazione politica.
Le feste dell’Unità – anche ora che l’Unità non esiste più... – resistono dove c’è uno zoccolo duro di militanti, vuoi per tradizione vuoi per convinzione, ma vanno progressivamente perdendo il loro carattere popolare, la loro capacità di coagulare un insieme di persone ben più ampio dei soli tesserati a un partito, offrendo occasioni di riflessione politica e di incontro, oltre che di svago.
Non dissimile è la situazione in casa della Lega, l’unica altra forza politica che “resiste”, mentre un giro sui siti internet di Forza Italia, Fratelli d’Italia, Udc e via elencando mostra il deserto o quasi che ha contraddistinto questa estate dal punto di vista delle iniziative nei territori.

Rimpiangere i “bei tempi andati”, come si usa dire, lascia il tempo che trova.
Ma se il termometro indica uno stato febbrile, anche rassegnarsi all’ineluttabile non pare una buona scelta. Perché il sistema democratico, volenti o nolenti, dei partiti ha bisogno.

La vera domanda, allora, rimane sempre la stessa: ma di quali partiti deve dotarsi una moderna democrazia? Come possono essere costruiti e gestiti, sia per evitare la corruzione in cui è affondata la Prima repubblica sia per garantire regole trasparenti e meccanismi democratici innanzitutto al loro interno?

Un tentativo di dare una risposta, per la verità, in questa legislatura c’è stato, con l’approvazione alla camera nel giugno dello scorso anno della legge di riforma dei partiti che toccava nodi cruciali come la selezione delle candidature, il finanziamento, lo statuto delle forze politiche. Forse non la migliore risposta del mondo, ma certo un passo in avanti di cui però – a oltre un anno di distanza – si è persa traccia nei meandri del Senato.
Se si cercano lumi sul sito internet di palazzo Madama, ci si deve accontentare di due scarne righe datate 27 giugno: “in corso di esame in commissione”. E lì, con ogni probabilità, è destinato a rimanere perché questo ultimo semestre di legislatura sarà quasi certamente monopolizzato dalla legge di bilancio e (forse) dalla legge elettorale che tutti reclamano a gran voce ma su cui pare non esserci uno straccio di accordo.

È un’ulteriore occasione persa, di cui non andare fieri. Alle feste d’un tempo possiamo forse rinunciare, anche se per tanti di noi hanno rappresentato un’occasione preziosa. Ma di un sistema politico imperniato su partiti “seri”, responsabili, capaci di tessere un reale legame con la società che intendono rappresentare, ancora nessuno è riuscito a fare a meno preservando la democrazia. Che non è un televoto, né una delega in bianco. Né tantomeno una domenica in cui andarsene al mare.

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