Colombia, dopo mezzo secolo il sogno della pace è a portata di mano

Mercoledì 20 luglio dovrebbe chiudersi la trattativa tra il governo e le Farc. Un conflitto sanguinoso, in atto da oltre 50 anni potrebbe così avere fine. Le premesse per un epilogo favorevole ci sono tutte, ma non manca anche lo scetticismo. Anche perché le Farc sono solo uno degli attori nella «guerra di guerriglie» che ha fin qui causato oltre 200 mila morti e 7 milioni di profughi.

Colombia, dopo mezzo secolo il sogno della pace è a portata di mano

Il prossimo mercoledì 20 luglio potrebbe essere una data storica per la Colombia.
Per quel giorno il presidente del paese latino americano Juan Manuel Santos ha infatti fissato la chiusura ufficiale delle trattative di pace con le Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia, le milizie di ispirazione marxista meglio conosciute con l’abbreviazione di Farc.
Se l’accordo giungesse effettivamente a buon fine si chiuderebbe un conflitto interno che dura da più di mezzo secolo, in considerazione della nascita ufficiale delle milizie nel 1964 e delle lotte in risposta alle disuguaglianze sociali partite nei decenni precedenti che ne favorirono la formazione.

Il bollettino di questa «guerra di guerriglie», come l’ha definita qualcuno, fatta di imboscate ma anche di combattimenti a viso aperto, riporta oltre 220 mila morti tra miliziani, civili, politici e soldati dell’esercito regolare senza dimenticare gli almeno 25 mila dispersi. A tutte queste vittime vanno aggiunti gli oltre 27 mila casi di sequestro di persone poi rilasciate o liberate – tra le quali il nome più noto è quello di Ingrid Betancourt, tornata in libertà nel 2008 dopo sei anni di prigionia – e i tanti feriti per il frequente ricorso ad armi di ogni tipo (per esempio le mine antiuomo) così come a torture e lavori forzati una volta fatti prigionieri da ambo le parti. E, soprattutto, i numerosissimi profughi interni.

Una belligeranza senza esclusione di colpi – inasprita dal coinvolgimento di sezioni paramilitari adibite al lavoro sporco da parte del governo, dei cartelli del narcotraffico e di altre formazioni ancora come l’Auc guidate dai grandi proprietari terrieri – a cui si è deciso di porre fine.

Nel 2012 è stato convocato appositamente un tavolo per la pacificazione, in principio a Oslo, in Norvegia, e quindi nella capitale cubana de L’Avana, attraverso cui stabilire le modalità e le condizioni del processo.
Il presidente colombiano Santos ne è un convinto sostenitore, dopo aver dichiarato pubblicamente che la repressione da sola non sarebbe bastata per il contrasto alla destabilizzazione interna o al narcotraffico: secondo lui, occorrono invece politiche serie e continuate di lotta alla povertà e di inclusione alle fasce deboli.
Del resto la controparte, rappresentata dal capo delle Farc Rodrigo Londoño detto “Timochenko”, chiede garanzie proprio per i ceti ai margini della società colombiana.

Per la prima volta dopo tanto tempo contadini, minoranze indigene e di lontana origine africana, diseredati di varia provenienza non sono così oggetto solo di vaghe promesse elettorali ma di proposte programmatiche di sviluppo inserite in documenti ufficiali.
Per loro si desidera una distribuzione della terre in forma egualitaria, un’istruzione accessibile a tutti e uniformata alle esigenze delle diverse comunità rurali, la realizzazione di servizi e infrastrutture per concretizzare lo sviluppo economico (canali di irrigazione, strade, etc).
Peraltro il tavolo per la pacificazione, la Mesa de conversaciones come la chiamano in spagnolo ma che viene portata avanti in inglese e nella lingua indigena Wayuu, è stato improntato alla massima apertura alle proposte esterne, tanto che oltre 3 mila organizzazioni operanti nel sociale finora si sono fatte sentire; tra queste ultime, molte sono state fondate da vittime e relative famiglie del lungo conflitto interno o comunque si occupano del problema e possono per la prima volta avere voce in capitolo. Pertanto le premesse per essere ottimisti sull’esito dei negoziati ci sono.

Su come sostenere il processo di pace ha riflettutto anche la Conferenza episcopale colombiana.
Tuttavia, il presidente mons. Luis Quiroga, arcivescovo di Tunja, ha evidenziato che «non è stata offerta una pedagogia per spiegare tutte queste cose del processo di pace – come riportato dall’agenzia Fides – Si è fatta una pedagogia con una élite, da avvocato a avvocato, ma non per la gente semplice».
Ma non manca neppure lo scetticismo, specie tra gli avversari politici di Santos come il predecessore alla presidenza Alvaro Uribe. Non va infatti dimenticato, come molti osservatori non mancano di sottolineare, che la guerra è stata a più riprese un massacro di tutti contro tutti e che le Farc rappresentano solo uno dei soggetti coinvolti.

Sette milioni di profughi. Il dato più alto del pianeta

Morti, feriti e sequestrati. Ma la prima conseguenza del conflitto è la trasformazione della Colombia nel paese con il maggior numero di sfollati al mondo: nel 2015 ben 6,9 milioni su 65,3 globali, quasi il 15 per cento della popolazione.
Un triste primato ufficializzato da un rapporto dell’agenzia dell’Onu per i rifugiati e richiedenti asilo (Unhcr), presentato il 20 giugno in occasione della Giornata mondiale del rifugiato. Il rapporto poneva l’accento sulla particolarità del paese latinoamericano che, a differenza di molte realtà africane e del Medio Oriente, si ritrovava a gestire esodi interni in fuga dalle tante guerriglie descritte a lato.
I problemi di chi è costretto a fuggire restano comunque molto simili, perché oltre all’abbandono dei propri averi e dei propri simili c’è l’aspetto della convivenza nei nuovi centri e nelle nuove città. Lo sanno bene, d’altro canto, i cittadini delle almeno 220 municipalità che attualmente si spartiscono i tanti sfollati da ospitare.

Un fenomeno così ampio affonda le proprie radici ben prima dell’esplosione della guerra civile.
Secondo gli storici locali bisogna risalire al periodo tra il 1945 e il 1958, da loro definito «La violencia»: circa due milioni di persone tra contadini e gruppi etnici autoctoni vennero man mano espropriati dei propri appezzamenti in nome di uno sviluppo economico che favoriva le grandi produzioni agricole e accresceva nel contempo le disuguaglianze all’interno della popolazione; per non parlare della realizzazione di grandi opere che non guardava in faccia alla presenza di attività e insediamenti già presenti, spazzando via intere comunità.
A propria volta questa tumultuosa trasformazione sociale seguiva la cosiddetta esplosione urbana degli anni Venti e Trenta, quando la richiesta di manodopera a basso costo aveva incoraggiato la fuga dalle campagne, ma nei decenni successivi le grandi e medie città non sono state più in grado di assicurare un lavoro e tanto meno una permanenza dignitosa ai nuovi arrivati.
Da qui le tensioni crescenti tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la formazione di gruppi armati e le lotte vere e proprie da cui sono scaturite le cifre attuali.
La diminuzione dei profughi è già iniziata ma si attesta a poche decine di migliaia di persone l’anno, come riporta il quotidiano El Espectador; ben distanti, quindi, dai 6,9 milioni complessivi.

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