Quella porta che rende sacro il carcere. La storia di Gaetano, detenuto "liberato" dalla fede

All'apertura della Porta della misericordia in carcere lo scorso 27 dicembre, c'era anche lui, Gaetano, detenuto nella sezione di media sicurezza, che è stato invitato a raccontare la sua conversione insieme ad altri tre carcerati.

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Quella porta che rende sacro il carcere. La storia di Gaetano, detenuto "liberato" dalla fede

Ha chiesto tre miracoli al Signore, il vescovo Claudio, all’apertura della Porta della misericordia – il 27 dicembre scorso – nella cappella del carcere Due Palazzi di Padova. Il secondo: «Che tutti questi uomini percepiscano che tu vuoi loro bene, che li stai attendendo come il padre attende il figlio allontanato da casa. E li attendi per abbracciarli e accompagnarli anche nelle loro pene, per confermarli, se vogliono, nella dignità di essere tuoi figli, proprio qui. Restituisci, o Signore, fin da ora coraggio e libertà di amare, di sperare, di sognare anche in una cella. Anche qui c’è spazio per la santità». La Porta santa era già aperta, quando ha pronunciato queste parole, ma... l’ha ulteriormente spalancata! Soprattutto per i detenuti: quelli presenti all’eucaristia del 27 dicembre – erano in 150, alcuni anche della sezione di alta sicurezza – ma anche per tutti gli altri rimasti nelle loro celle. Che, ciascuna con la propria Porta santa, interpellano “noi che stiamo fuori” (?) e ci interrogano senza sconti su cosa realmente voglia dire misericordia. Anzi, in che cosa consista il “fare” misericordia. In questo senso, la Porta santa del carcere, anche se non la varcheremo fisicamente, può diventare davvero via concreta di cambiamento. Per tutti. Senza distinzione tra dentro e fuori.

C’era anche lui all’apertura della Porta della misericordia al Due Palazzi. Ed è pure stato “chiamato in causa”. A Gaetano, 47enne della provincia di Caltanissetta – in carcere da 21 anni e battezzato da quasi tre – è stato chiesto di raccontare il proprio cammino di fede. «L’ho fatto, come in altre occasioni, perché voglio testimoniare che non si nasce colpevoli e non si muore tali. Nella vita succede di rivedere il proprio passato e a volte lo si fa in modo molto critico. Sui detenuti ci sono tanti pregiudizi, ma io mi sento di testimoniare che molti di noi crescono, maturano e cambiano il proprio stile di vita e di pensiero. Io mi racconto senza offendere l’intelligenza di nessuno e senza chiedere nulla in cambio. Comprendo lo scetticismo che a volte percepisco in chi mi ascolta, ma desidero raccontare la mia esperienza di cambiamento».

Gaetano, come hai vissuto l’apertura della Porta santa?
«Quel giorno è stato un momento particolare per questo carcere. È diventato un luogo sacro! Le nostre celle si sono trasformate in luoghi di perdono dei peccati... cosa di cui abbiamo bisogno, perché qui non mancano. La nostra cappella è diventata un piccolo santuario della misericordia! Credo che questo sia servito a togliere un po’ dello squallore che c’è in carcere. Perché ancora oggi, nel 2016, il carcere è degrado. Lo dico con molto rammarico e amarezza. In questi luoghi viene fatto ben poco per migliorare la vivibilità dei detenuti. Quel giorno è stato importante per portare un po’ di umanità in carcere, cosa che manca. Purtroppo quello che circonda il detenuto è un’assenza di umanità. L’entrata del vescovo qui e l’apertura di una Porta santa è stato un momento alto per tutti i credenti. Una persona che incontro spesso mi ha detto: “Magari avessi anch’io, in casa mia, una Porta santa”. Sento che per la prima volta i detenuti si possono sentire privilegiati».

Hai varcato tante volte la cappella del carcere: cos’è cambiato ora che è chiesa giubilare?
«Da quando è iniziato il mio cammino di fede, la chiesa è stato un luogo che mi ha portato tanta serenità. Oggi, dopo l’apertura della Porta santa, dopo che la nostra chiesa è diventata un luogo della misericordia, questo mi fa sentire molto più sereno. Posso attraversare la Porta santa solo al sabato, per il tempo del catechismo, e alla domenica per la messa, ma sono momenti che attendo con trepidazioni. Scendo in chiesa molto più volentieri di come lo facevo già».

Il tuo cammino di fede ha avuto inizio...
«Dall’incontro con suor Maria nel carcere di Poggioreale. Quando mi ha chiesto perché ero arrivato in un carcere punitivo – dove vengono trasferiti i detenuti che hanno avuto problemi in altre strutture – e io le ho detto che non ne capivo le motivazioni, avendo sempre avuto un comportamento corretto nel carcere di Voghera, dove studiavo e lavoravo, ho sentito che lei non ha dubitato nemmeno un secondo, e questo mi ha colpito molto. Prevalentemente il detenuto si scontra con la diffidenza, e questo aggiunge frustrazione a frustrazione. Suor Maria, invece, mi ha creduto».

Che cos’è, in questo incontro con suor Maria, che ti ha aperto la porta della fede?
«La sua sincerità. Ho visto che la sua vita non era più sua. Nonostante l’età avanzata e il fisico provato dedicava tutta la sua vita ai detenuti. Aveva una incredibile forza d’animo! Questo mi ha portato a fidarmi totalmente di lei, a mettermi completamente nelle sue mani, perché vedevo che il suo unico interesse era adoperarsi perché nel carcere di Poggioreale, che è molto difficile, venisse riconosciuto ai detenuti un minimo di dignità. Nei due mesi che sono stato in quel carcere lei mi hai insegnato a pregare. E, quando improvvisamente sono stato trasferito, la prima cosa che ho messo in valigia sono stati tutti i libriccini di preghiere che lei mi ha dato. Che mi hanno aiutato a trascorrere sei mesi di 41 bis a Spoleto, poi revocati perché non vi erano i presupposti».

Sei mesi in compagnia della preghiera?
«Nel regime di 41 bis viene sospeso tutto. Ciò che fa più male è che vengono sospesi i contatti con la famiglia. Non potevo incontrare mia moglie Gaetana, mia figlia Gaia (che era piccola), i miei genitori… Dicono che è per evitare i contatti con la criminalità esterna. In queste detenzioni si nutre molta rabbia e rancore; non è possibile riflettere serenamente e su se stessi e, magari, rivedere la propria vita. In quella condizione i libricini di preghiere di suor Maria, ma anche il suo ricordo, sono stati preziosi. Sono stati il trampolino di lancio per compiere il percorso di catecumenato. E nel carcere di Padova, dove sono arrivato il 30 maggio 2007, sono stato messo nelle condizione di farlo».

Quand’è che hai capito che volevi essere battezzato?
«Quando ho sentito il bisogno di andare in chiesa e di pregare. Ritenevo di farlo in maniera abusiva... Mi sentivo clandestino. Andavo a messa anche nelle altre carceri, ma a Padova ho cominciato a sentire il bisogno di andarci. Eravamo in due, all’inizio. A un certo punto ho ritenuto giusto “mettermi in regola” per frequentare la messa. Anche sollecitato da mia mamma, che si sentiva responsabile per il fatto che non ero stato battezzato da piccolo. E così, ormai ultraquarantenne, ho manifestato il mio desiderio a padre Giuseppe e padre Daniele, che – arrivato don Marco – mi hanno affidato a lui. Il percorso di catecumenato l’ho vissuto con il diacono Marco Antonio. È stato bello, perché non è stato solo un “insegnante” per me, ma è nato dell’affetto. È un amico».

E così sei stato battezzato. Com’è cambiata la tua vita?
«Era il 31 maggio 2013. Mi ha battezzato il vescovo Mattiazzo, in carcere. Oggi vivo la mia vita e i miei problemi più serenamente nonostante il posto difficile in cui mi trovo. Prima vivevo tutto con tanta rabbia, intolleranza, reagivo a tutto e a tutti. Oggi la tolleranza è entrata nella mia vita, anzi, ne occupa una buona parte. La tolleranza è affrontare in modo più sereno i problemi che si presentano ogni giorno in carcere. Questo cambiamento è avvenuto quando mi sono avvicinato alla chiesa, quando ho incontrare delle persone disponibili ad accompagnarmi».

La tua famiglia come ha vissuto, e vive, il tuo cammino di fede?
«Mia moglie ne è rimasta sorpresa, perché prima del carcere non ero mai entrato in una chiesa. È colpita anche dal fatto che, grazie alla mia partecipazione a Ristretti orizzonti, scrivo delle riflessioni sull’ergastolo che vengono pubblicate sui giornali o in internet. Lei mi conosce come uno chiuso, e leggere che racconto cosa sto vivendo in prima persona la sorprende».

Tu vivi, al momento, nella sezione di media sicurezza del Due Palazzi.
«Molti dei miei 21 anni di carcere li ho vissuti nella sezione di massima sicurezza, dove la vita di un detenuto dipende solo dalle decisioni del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Che applica pochissime concessioni... In questa sezione la giornata è improntata all’ozio più totale e non viene data nessuna possibilità di reinserimento. Anche se a Padova le cose vanno un po’ meglio... Ora mi trovo nella sezione di media sicurezza, perché sono stato ritenuto persona non pericolosa, che ha chiuso con il proprio passato. Nonostante questo non posso uscire dal carcere, perché la mia condanna all’ergastolo è ostativa. Vuol dire che non posso accedere a nessun beneficio, anche se sono stato riconosciuto innocuo».

Com’è la tua giornata?
«Mi alzo tra le 5 e le 6, faccio colazione e un po’ di attività fisica, perché in cella è freddo. Durante la mattina lavoro al call center e al pomeriggio partecipo alle attività di Ristretti orizzonti. Qui ci confrontiamo sulle problematiche che riguardano il carcere: dalla vita quotidiana alle leggi, che magari riteniamo troppo rigide o che non vengono applicate bene. Il carcere di Padova, per come lo vivo io, è uno dei più umani in Italia. Grazie alla cooperativa Giotto, a Ristretti orizzonti, alla parrocchia… a tanti viene data la possibilità di un percorso di miglioramento. Se al detenuto fai compiere un percorso, se gli insegni un mestiere e a parlare con le parole prima che con le mani… quel detenuto avrà degli strumenti diversi per difendersi nella vita».

Gaetano, possiamo dire che la tua vita di fede è iniziata con la preghiera... Come la vivi ora?
«Non prego quasi mai per me. Prima di addormentarmi affido al Signore le cose che mi fanno stare male. Mio padre è in fin di vita… da figlio dovrei essere lì con lui. Anche se mi permettessero di andare a trovarlo, sarebbe un calvario: dovrei passare da un carcere siciliano all’altro, poi dovrei presentarmi davanti ai miei familiari in manette… La mia preghiera è per mio padre, mia figlia, mia moglie. Loro soffrono a causa mia... Prego perché possano trovare serenità e perché la loro vita scorra con meno ostacoli, perché attualmente ci sono. Per 21 anni, soprattutto mia moglie e mia figlia, hanno viaggiato per stare dietro a me. Prego per loro... Il mio più grande rammarico è quello di non essere vicino a mia figlia».

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