«Le elezioni politiche? Si vinceranno in tv»

Marco Almagisti, politologo e autore del libro Una democrazia possibile: «Siamo nell'epoca dei social, è vero, ma le prossime elezioni si decideranno in televisione». E saranno elezioni precedute da una campagna elettorale molto combattuta e con un forte tasso di conflittualità.

«Le elezioni politiche? Si vinceranno in tv»

Domenica sera Luigi Di Maio ospite da Fabio Fazio ha segnato un’altra tappa della campagna elettorale per le politiche del 2018.
Campagna che ha avuto inizio con il voto siciliano di due settimane fa, preso come “banco di prova” di future alleanze. Non ci si deve affrettare a fare della Sicilia e dell’Italia un tutt’uno, ma alcune dati emersi da quelle elezioni aiutano a fare delle ipotesi su che caratteristiche avranno le prossime elezioni. Una su tutte: l’astensionismo. Ne parliamo con Marco Almagisti, docente di scienza politica all’Università di Padova e autore di Una democrazia possibile, uscito di recente per Carocci.

«L’astensione è in crescita non solo in Italia, ma anche in Europa e negli Usa. Qui Bill De Blasio, il sindaco di New York, è stato rieletto con il favore del 66% dei votanti. Il punto rilevante è che i votanti sono stati il 22 per cento degli aventi diritto al voto. Si tratta di una tendenza diffusa in tutto l’occidente, a cominciare dagli Usa».

Il calo dei votanti caratterizzerà anche le prossime elezioni politiche?
«Sarà una campagna molto combattuta. I vari leader saranno molto presenti in televisione e pertanto le percentuali di chi si senterà coinvolto al punto di andare a votare, saranno maggiori. Tuttavia il problema c’è. E deriva da una oggettiva difficoltà della rappresentanza democratica».

A cosa è dovuta questa difficoltà?
«Dalla percezione che la politica non sia più un veicolo per cambiare le cose, per migliorare le proprie condizioni di vita. Dalla mancanza di alternative significative fra i programmi, almeno dei partiti maggiori».

Come sarà la campagna elettorale che sta per iniziare?
«Molto conflittuale. I vari leaders si giocheranno fino in fondo la carta dell’anti-establishment, ovvero della critica alle classi dirigenti in quanto tali».

Come ha investito i partiti questa critica?
«Chiusa l’epoca, per certi versi “gloriosa”, dei partiti storici e dopo tangentopoli, tutti i leaders hanno cominciato a qualificarsi come “qualcos’altro” rispetto al sistema precedente. La tendenza si è rafforzata negli ultimi vent’anni, per cui Berlusconi era l’imprenditore di successo, Prodi il professore, Di Pietro il magistrato, Grillo il comico… E questo ha, evidentemente, pagato in termini elettorali».

Se questa è stata la tendenza degli ultimi vent’anni, allora cosa hanno inventato i grillini?

«Il Movimento 5 Stelle ha perfezionato il modello. Dalla crisi del 2008, sono nati tanti movimenti politici di contestazione dell’establishment, anche a sinistra, pensiamo a Podemos in Spagna o a Syriza in Grecia. Il M5S in Italia è diventato punto di coagulo di differenti filoni di protesta, perché ha avuto un tempismo eccezionale nell’intercettare il malcontento ed è stato molto efficace nel trasformarlo in consenso».

Quindi, in questo caso, l’Italia potrebbe essere un caso di studio.
«Certamente, con una particolarità però: tangentopoli. Non c’è stata in nessun altro Paese la cancellazione di un’intera classe dirigente come avvenuto in Italia negli anni ’90. Solo in Grecia, con la crisi del debito sovrano, è avvenuta una cosa simile. Ma in Italia, dei partiti che hanno fondato la Repubblica, non esiste più nessuno, almeno con consensi significativi. Il partito più vecchio oggi in Parlamento è la Lega Nord, evoluzione della Liga Veneta fondata nel 1979».

Prima parlava di televisione: è ancora un mezzo così importante, anche si siamo immersi nell’epoca dei social network?

«Sì, la televisione rimane il mezzo più utilizzato e più persuasivo. Berlusconi lo sa bene. E lo sapeva bene anche Obama, che nella sua prima campagna presidenziale ha fatto un ottimo lavoro con tutti i possibili canali di comunicazione, non solo con i social, riscoprendo tra l’altro la prossimità, cioè andare ad incontrare i cittadini in occasioni pubbliche aperte, anche dove poteva correre il rischio di essere contestato».

Il modello dei partiti “classici” è tutto da buttare?
«Il modello classico dei partiti di massa è stato vittima del proprio successo. Negli anni del dopoguerra, serviva “ancorare” la società alle nuove istituzioni democratiche, attraverso un’azione pedagogica senza la quale si rischiava una nuova guerra civile o una dittatura. Questo lo spiegava molto bene Aldo Moro negli anni ’70. Moro, un grande alfiere della “Repubblica dei partiti”, aveva capito che la società era cambiata. Detto questo, senza partiti non esiste democrazia. Infatti, in tutta Europa il dibattito è su come farli funzionare, non su come distruggerli».

Tornando alla campagna elettorale, quali saranno secondo lei i temi centrali?
«Gli stessi che rappresentano delle linee di conflitto nella società: uno su tutti, l’immigrazione. Avranno importanza anche i temi economici: stiamo uscendo da una crisi seria e profonda che ha infranto le illusioni coltivate per decenni. Per questo si parlerà molto di lotta alla povertà e sviluppo economico. Infine, il tema più caro a Berlusconi: la riduzione delle tasse».

Sono tutti temi molto “democratici”, nel senso che toccano ambiti che riguardano il miglioramento delle condizioni di vita e che dovrebbero richiamare alle urne un numero maggiore di votanti… o no?
«Il problema è che dopo la crisi degli anni ’90 è iniziata una transizione che deve ancora concludersi. E ricostruire dei legami di fiducia è complicato. Oltre a proporre dei temi, occorre creare un rapporto di fiducia con i cittadini. Senza credibilità è difficile raccogliere consenso attorno alle proprie proposte».

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