Il futuro? Tornare alla sorgente. Un annuncio che incontra la vita

Un annuncio che incontra la vita Questo il tema del convegno triveneto dei catechisti, la cui prima tappa si è tenuta il 28 gennaio. Due gli interventi: di don Carlo Broccardo e don Michele Roselli. «Per la Chiesa significa tornare al primo annuncio del kerigma, cioè all’annuncio di un’esperienza: quella di essere già salvati dalla/nella Pasqua di Gesù»

Il futuro? Tornare alla sorgente. Un annuncio che incontra la vita

«Il futuro di un fiume è alla sorgente». È controintuitivo, ma è così. È senza la sorgente che il fiume non ha futuro. Non senza il mare, come spontaneamente verrebbe da pensare. Questa frase di Erri De Luca mi aiuta a riflettere sulla vita della Chiesa e sull’annuncio del Vangelo, oggi. Il futuro del cristianesimo non gli sta solo davanti, ma continuamente al centro, all’origine. Ma cosa vuol dire questo? Tornare alla sorgente, per la Chiesa, significa tornare al primo annuncio del kerigma, cioè all’annuncio di un’esperienza: quella di essere già salvati dalla/ nella Pasqua di Gesù. È ciò che è accaduto ad alcuni uomini di Galilea, trasformati dal loro incontro con Gesù. Da allora, questa esperienza è annunciata per permettere anche ad altri di fare l’esperienza, di sentirsi amati incondizionatamente, in e attraverso Gesù, e di poter vivere affidati. È questo il cuore del Vangelo e della vita. È questo ciò di cui siamo invitati a diventare racconto, proprio nell’oggi di un tempo in cui non si è più “normalmente cristiani” e in cui la fede è messa ai margini; non solo della cultura, ma anche della vita privata. Un tempo in cui il cristianesimo non incrocia più le aspirazioni e le domande di senso, e le sue parole e i suoi gesti sono diventati spesso indecifrabili. Tornare al primo annuncio del kerigma, riandare all’origine, non vuol dire ritornare al passato e neppure fuggire verso il futuro, ma significa abitare il presente con speranza, senza perdere quello che conta davvero. Significa rendere visibile e accessibile la straripante bellezza del Vangelo: la buona notizia di un amore più forte dei fallimenti, che permette di attraversare il male e uscirne vivi. Perfino dalla morte. Un annuncio così è capace di incontrare la vita di tutti. A condizione che non si perdano di vista alcune attenzioni. Ne evoco tre. La prima è che non bypassi l’ascolto dell’altro. Perché la vita, prima di essere raggiunta dalla proposta di fede, è già attraversata da tracce di Dio. La seconda è che si abbandoni l’idea di controllo. L’esito dell’annuncio non è programmabile, perché la fede è questione di Grazia e libertà: non si impone dall’esterno per autorità, ma si sperimenta interiormente, per convinzione. E quindi non è detto che tutti diventino credenti. La terza è che parli il dialetto della vita, cioè che annunci Dio con gesti e parole quotidiani, suscitando domande più che offrendo risposte. Proprio come faceva Gesù. In concreto, significa condividere significati credibili alle esperienze umane fondamentali, trasfigurate dalla luce della fede. Mi pare necessario, infine, indicare una condizione che sta a fondamento di tutto. Affinché l’annuncio incroci la vita degli altri, occorre che il Vangelo incontri anzitutto la nostra di vita. L’annuncio chiede “parole di carne”, trasparenza della Parola incarnata in noi, testimonianza che credere è possibile e bello.

don Michele Roselli
Vicario Episcopale per la Formazione e Responsabile della Pastorale Catechistica Diocesi di Torino

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