Immagini come monito. Le città devastate dall’odio cosa dicono alle altre città?

L’Aquila con le ferite aperte dopo 15 anni dal terremoto, Sarajevo con 11.541 paia di scarpe e scarpine per fare memoria delle vittime del mercato nella guerra 1992-95

Immagini come monito. Le città devastate dall’odio cosa dicono alle altre città?

Sui giornali cartacei ed elettronici di venerdì 5 e di sabato 6 aprile, si susseguono di pagina in pagina le immagini di città che hanno conosciuto e stanno conoscendo l’angoscia e l’abbandono.
L’Aquila con le ferite aperte dopo 15 anni dal terremoto, Sarajevo con 11.541 paia di scarpe e scarpine per fare memoria delle vittime del mercato nella guerra 1992-95. Kiev colpita dai missili di Putin e che reagisce all’aggressione colpendo a sua volta città russe, New York che vacilla per scosse telluriche che a Taiwan hanno provocato morti e inclinato palazzi. Le città di Palestina sconvolte da un duplice terrore e Gerusalemme dove nella Città Vecchia venerdì 5 aprile la paura occupava la piazza.
Sono le foto di alcune città in un buio talmente fitto da rendere difficile pensare che le ferite della disperazione possano trasformarsi in feritoie per consentire il passaggio della speranza.
Sono immagini che fanno riflettere sul futuro della città dell’uomo, sull’indebolirsi dell’architettura sociale, sul venir meno della cura delle relazioni, sulla fragilità della democrazia, sull’autotradimento di molta parte della politica.
È svanita nel nulla “La città del sole” che il domenicano Tommaso Campanella immaginava nel 1602 ispirandosi alle utopie politiche di Platone e Tommaso Moro. La felicità è la protagonista del dialogo poetico che il frate filosofo ha immaginato tra due personaggi di fantasia, la felicità quale fondamento, tensione e obiettivo di un buon governo cittadino.
Le città felice non può però essere lasciata all’utopia, al vagabondare in un’astrattezza che nulla ha a che fare con il sogno che è stare nella complessità realtà senza venirne imprigionati.
A città infelici perché distrutte dall’odio o dal terremoto si affiancano città tristi che confondono l’identità che respira con l’autoreferenzialità a cui manca il respiro e che fa mancare il respiro.
La cronaca racconta delle une e delle altre attraverso i fatti e le scelte che si compiono o non si compiono per il bene comune di cui la pace la giustizia sono fondamento. La cronaca continua e continuerà a offrire le immagini come provocazioni per un discernimento e una presa di coscienza.
Da tutte viene la domanda sulla città, su cosa si attende dagli uomini e dalle donne che la abitano. Enzo Bianchi (Città amata e temuta – ed. Paoline 2013) risponde: “Attende che usciamo da noi stessi, dal nostro narcisismo, dal nostro individualismo, e ci impegniamo a tracciare orizzonti di convergenza politica, economica ed etica con gli altri. Non c’è altra via per l’umanizzazione della città, in caso contrario avanzeranno il deserto e la barbarie”. Le foto che ogni giorno i media propongono diventano un monito, un appello a interrompere il sonno del pensiero.

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Fonte: Sir