Quando la canzone diventa profezia. Sessant’anni fa usciva “The sound of silence” di Simon & Garfunkel

Un capolavoro che ha cambiato la concezione del rapporto musica-poesia

Quando la canzone diventa profezia. Sessant’anni fa usciva “The sound of silence” di Simon & Garfunkel

“E le scritte dicevano: le parole dei profeti sono scritte sui muri della metropolitana e negli ingressi dei caseggiati. E sussurravano nel suono del silenzio”.

È il 1964, esattamente sessant’anni fa: il duo Simon & Garfunkel, formato da due giovani musicisti  statunitensi, ambedue ventitreenni, debutta con un LP, “Wednesday Morning, 3 A.M” che avrà nei tempi brevi scarsa fortuna, anche perché era calato negli Usa il fenomeno musicale del secolo, i Beatles, che segnarono il crollo di ogni record di ascolto al celeberrimo Ed Sullivan Show e di pubblico ai concerti. Nel disco però è compreso un pezzo destinato a rimanere nella storia della cultura musicale, e non solo quella.

I due, un po’ provati dall’indifferenza del mercato, un po’ per cercare nuove strade,  vanno ognuno per la propria strada: si ritroveranno nel 1966 per reincidere quella canzone con qualche assestamento, ad esempio la compresenza di chitarra acustica ed elettrica. Ma quello che conta è soprattutto quel testo in cui viene raccontata una visione notturna: migliaia di persone che parlano “senza dire parole”, gente che “sentiva senza ascoltare” immersa in uno spaventoso “sound of silence” in cui nessuno ascolta l’altro, perché tutti sono asserviti al dio del neon che essi stessi hanno creato. A nulla vale l’invito ad abbandonare quella desolante desertificazione, a farsi avvolgere da un abbraccio in modo da tornare ad una comunicazione in cui corpo, anima  e mente ridiventino aspetti diversi e complementari: ormai sono schiavi di una nuova divinità.

Una autentica poesia in musica -ma questo connubio non deve scandalizzare, era già in atto prima di Dante- che precorre profeticamente i tempi, visto che quella visione parla di masse schiave, accecate, incapaci di ascoltare voci umane. Non ci vuole molto per capire come quel testo volesse alludere alla società dei consumi in cui le grandi fabbriche di consenso portano a credere, con stimoli ben studiati, che il superfluo sia necessario.

Certamente altri eventi ebbero il loro peso nella creazione di queste visionarie parole: l’assassinio del presidente John F. Kennedy avvenuto l’anno prima, e quello di una ragazza, Catherine Susan Genovese, che, proprio nel 1964 venne uccisa di notte a New York senza che nessuno del vicinato intervenisse in sua difesa.

Questi eventi fecero molto pensare a quanto l’umanità andasse distaccandosi dai veri rapporti interpersonali, isolandosi sempre più dai propri simili nelle case in cui regnava sovrano “il dio al neon”, la televisione serializzata e diventata causa di una clausura inconsapevole. E i cellulari erano ancora lungi dal presentare il panorama sconfortante di gente che, invece di parlare in presenza con l’altro, si porta all’orecchio una macchinetta da cui ascoltare registrazioni, voci in differita: tutti presi alla ricerca del suono del silenzio. Non quello della meditazione e della preghiera, ma della solitudine e dell’impersonalità.

Un capolavoro che diverrà ancora più celebre perché colonna sonora di un film che fece conoscere al pubblico italiano Dustin Hofmann: “Il laureato” di Mike Nichols con la celebre scena della piscina, in cui solitudine, noia e depressione emergono da quello che dovrebbe essere il benessere economico della middle class americana. E in cui echeggia, ancora una volta, il suono del silenzio di Simon & Garfunkel.

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Fonte: Sir