Scuola: la cultura "serve" per educare

Un aspetto della sfida educativa del tempo presente – sottolinea Andrea Porcarelli, docente di pedagogia sociale e culturale dell'università di Padova – è proprio la crisi della paideia condivisa, che favorisce il diffondersi di un approccio relativista e indebolisce la forza dell’azione educativa. Ma anche la cultura ha bisogno di un orizzonte educativo.

Scuola: la cultura "serve" per educare

Le riflessioni sulle potenzialità educative della cultura accompagnano tutta la storia dell’umanità: quella che nell’antica Grecia veniva chiamata paideia e in ambiente culturale tedesco viene chiamata bildung è la,cultura in quanto principio e fonte di educazione di costruzione dell’umano in quanto tale.

Il rapporto tra educazione e cultura è chiaramente biunivoco. L’educazione ha bisogno di una cultura di riferimento, non solo perché sono necessari dei contenuti educativi e formativi, ma anche e soprattutto perché non è possibile educare “in nome del nulla”: chi educa è sollecito verso persone concrete, cerca di coglierne le potenzialità e i talenti, ma anche di aiutarle a crescere nel senso di diventare “migliori”, orientandosi verso orizzonti di umanità desiderabile (paideia).

Un aspetto della sfida educativa del tempo presente è proprio la crisi di una paideia condivisa, che favorisce il diffondersi di un approccio relativista (quella dittatura del relativismo, di cui parlava Benedetto XVI) e indebolisce complessivamente la forza dell’azione educativa e lo slancio verso la crescita in quanto persone. Anche la cultura ha bisogno di un orizzonte di tipo educativo, nel senso che non è possibile pensare a una cultura “fine a se stessa” che si rigeneri come per magia, senza passare attraverso motivazioni interiori nelle persone in cui tale cultura è chiamata a rigenerarsi.

Si noti che abbiamo usato il termine a ragion veduta: una cultura non si “trasmette” come se fosse un pacco postale o un messaggio radiofonico, ma si “rigenera” nella mente e nel cuore di persone vive e vitali.

Entrando nel merito delle motivazioni che spingono ad accedere ai beni di cultura, inclusa l’istruzione scolastica, vediamo che esse potrebbero essere di due tipi: estrinseche e intrinseche. Le motivazioni estrinseche fanno leva su elementi che sono in qualche misura “esterni” al soggetto, come ad esempio le motivazioni di tipo funzionalistico: a scuola, tipicamente, si tratta del voto, ma in termini più ampi rientrano in tale tipologia tutte le proposte formative a cui si accede “in funzione” di obiettivi di natura economica, sociale, e simili. Sono invece motivazioni di natura intrinseca quelle che fanno leva su elementi di natura spirituale, che tipicamente si collocano nell’interiorità del soggetto, come la gioia per l’apprendimento, la meraviglia per la scoperta, la percezione di essere diventati persone migliori, più mature, con una maggiore ricchezza interiore.

Alla dittatura del relativismo, di cui si è detto sopra, fa eco oggi una dittatura del funzionalismo, in cui sembra quasi doveroso esplicitare “a che cosa serve” ciò che ci si propone di apprendere, quasi che una conoscenza “inutile” sul piano professionale, economico o su quello della sua spendibilità sociale, fosse una sorta di peso da rifuggire. A questa mentalità può contribuire non poco anche la scuola, secondo le modalità con cui declina la propria missione, ovvero interpreta il proprio mandato: erogare pacchetti formativi, oppure educare per mezzo della cultura. Nel primo caso i buoni risultati scolastici rischiano di diventare il “fine ultimo” per coloro che vivono l’esperienza di studenti, nel secondo caso essi sarebbero una sorta di “effetto collaterale” di un cammino di crescita verso la propria perfezione umana.

Parafrasando, in termini pedagogici, il noto appello evangelico rivolto da Gesù ai suoi discepoli, potremmo quasi dire ai nostri studenti: «cercate prima la vostra perfezione umana, la vostra ricchezza interiore, la gioia di gustare i tesori di cultura… tutto il resto vi verrà dato in aggiunta».

Un tema di attualità in cui si palesano concretamente le sfide educative è quello di una didattica centrata sulla promozione di competenze.

Il termine entra nella scuola quasi annunciando una riconfigurazione del sistema (la “scuola delle competenze”), ma non sempre ci si interroga in modo approfondito sui modelli pedagogici che – anche in modo implicito – vengono messi in campo. Vi è un’accezione comportamentista o cognitivista della competenza, che si traduce in una visione limitata, in cui si concepiscono le competenze come insiemi strutturati e predefiniti di conoscenze e abilità, tanto che si parla di competenze attese e si predispongono griglie articolate per valutare tali competenze attese, predefinite a priori, uguali per tutti. Vi sono altresì modelli psico-pedagogici di impianto costruttivista e personalista, in cui si parla di competenze personali, da sperimentare e mettere in atto “in situazione”, in riferimento a compiti di realtà, secondo la logica di una valutazione autentica.

Pretendere di impacchettare la cultura e il sapere in un insieme di contenitori prestrutturati (competenze attese) significa rilanciare nuovamente la logica tipica di un approccio funzionalista: si studia per apprendere quelle competenze e riportare una valutazione positiva in riferimento a esse. Se invece siamo convinti che la cultura non sia fine a se stessa, cercheremo anche di valorizzare una lettura pedagogica dell’idea di competenza in prospettiva costruttivista (centrata sugli “apprendimenti significativi”) e personalista (per cui la missione della scuola è quella di educare attraverso l’istruzione). Gesù dice di sé di non essere venuto per essere servito, ma per servire, così anche la cultura non chiede di essere servita, ma di “servire” alla crescita della persona.

Andrea Porcarelli, docente di pedagogia sociale e generale Università di Padova

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