Agenda2030: «Il ruolo strategico della società civile nel controllo dei governi»

I 193 paesi membri delle Nazioni Unite hanno sottoscritto i 17 Obiettivi per uno sviluppo sostenibile che compongono l'Agenda 2030. Ora la questione è: come monitorare il progresso verso la realizzazione dell'Agenda negli anni a venire? La risposta all'ex ministro Enrico Giovannini che ha coordinato un gruppo di lavoro istituito dal segretario generale Ban Ki-moon proprio per questo scopo. La centralità dei dati e della capacità di saperli utilizzare.

Agenda2030: «Il ruolo strategico della società civile nel controllo dei governi»

L’Agenda 2030, da poco più di un mese, è realtà. I suoi 17 obiettivi sono stati adottati da tutti i 193 paesi membri delle Nazioni Unite e costituiscono un orizzonte comune per lo sviluppo sostenibile dei prossimi 15 anni sul nostro pianeta. La questione chiave, però, a questo punto è: come monitorare il progresso verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdgs) negli anni a venire? Come realizzare azioni che spingano i singoli paesi, ma anche le imprese, a mettere effettivamente in pratica gli impegni che si sono assunti?

La risposa a queste sfide di portata planetaria viene da Enrico Giovannini, ordinario di statistica economica all’università di Roma “Tor Vergata”, ma soprattutto ex ministro del lavoro e delle politiche sociali nel governo Letta, e prima ancora presidente dell’Istat e a capo della statistica per conto dell’Ocse. A lui, nel corso del 2014, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha affidato la guida di un gruppo di una ventina di esperti internazionali, composto tra gli altri da presidenti di cinque istituti statistici nazionali, esperti di comunicazione della Silicon Valley, rappresentanti di istituti di ricerca come il Mit (Massachussets istitute of technology), con il compito di proporre politiche per produrre dati dettagliati e di qualità con cui monitorare l’avanzamento dell’Agenda.

In realtà, professore, avete fatto molto di più.
«A giudicare dallo stupore del segretario generale quando consegnammo il nostro rapporto A world that counts. Mobilizing a data revolution for sostainable development, possiamo dire di sì. Esso infatti copre non solo temi legati alla produzione di dati statistici, ma anche questioni etiche e politiche di grande rilievo. Il fatto è che oggi siamo invasi dai dati, siamo nella cosiddetta data revolution. I dati sono diventati un vero e proprio asset strategico per lo sviluppo, e quindi non solo per monitorare lo sviluppo, ma per realizzarlo. Basti pensare all’industria 4.0 o a tutti i nuovi servizi offerti grazie all’integrazione di piattaforme geografiche e altri dati. Abbiamo dunque elaborato una serie di raccomandazioni che Ban Ki-moon ha fatto proprie e sono state così poste alla base dell’ultimo tratto della negoziazione tra i paesi sull’Agenda. Inoltre, seguendo le nostre proposte, a settembre è stata lanciata la Global partnership per i dati sullo sviluppo sostenibile che coinvolge anche il settore privato e numerose fondazioni per finanziare il lavoro che deve essere fatto nei paesi in via di sviluppo, per allargare la base di chi potrà produrre i dati per monitorare lo sviluppo sostenibile».

I dati però occorre anche saperli utilizzare. Un ruolo fondamentale in questo processo spetta alla società civile.
«La società civile, che ha avuto per la prima volta un ruolo chiave nella definizione degli obiettivi, è un attore fondamentale per obbligare i governi, ma anche le imprese e le altre istituzioni, a realizzare quello che gli obiettivi fissano. Per questo, nel nostro rapporto abbiamo sollecitato un’iniziativa globale per migliorare l’educazione all’uso dei dati tra i cittadini e nella società civile. Se manca questo viene meno un passaggio fondamentale per il controllo dell’azione dei governi. Non solo: la società civile è essa stessa produttrice di dati importanti, basti pensare ai centri studi e alle fondazioni, a osservatori internazionali come l’Istituto per l’economia e la pace, o a Transparency international; ebbene, è importante che i dati siano prodotti in maniera precisa, indipendente dalle pressioni politiche e rispettosa delle regole etiche. Infine, la società civile deve avere un ruolo centrale nell’assicurarsi che le leggi, da un lato proteggano i diritti delle persone, specie in termini di privacy – ambito in cui l’Onu dovrebbe impegnarsi con maggiore forza – dall’altro, però, consentano la diffusione dei dati in formati aperti per farne uno strumento fondamentale di democrazia e sviluppo economico».

Un approccio ampio ma non privo di criticità.
«Le criticità sono tantissime, in primo luogo il finanziamento, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, delle capacità di produrre questi dati. Già adesso mancano delle statistiche di base, figuriamoci poi gli indicatori che misureranno tanti aspetti della vita economica e sociale, anche complessi, come quelli previsti dall’Agenda 2030. Ma sono ottimista: possediamo la tecnologia in grado di far fare a questi paesi un salto straordinario. Certo, senza un investimento forte in tecnologia ed educazione il rischio è che cresca la distanza tra paesi ricchi e paesi poveri, tra il settore privato, che sta investendo enormi quantità di denaro, e il pubblico, che è invece in ritardo, e alla fine tra chi sa come usare i dati e chi non sa come usarli. La data revolution in quanto tale non produrrà necessariamente una riduzione nelle disuguaglianze, a meno che essa non sia ben governata e orientata».

Qual è la sua opinione sull’Agenda 2030: troppo ambiziosa?
«La ritengo giustamente ambiziosa, semmai c’è una questione sulla tempistica: quando i paesi inizieranno a implementarla? Il primo banco di prova sarà la Cop 21 di dicembre a Parigi: se non si riuscirà ad arrivare a un accordo su un fenomeno così grave e sotto gli occhi di tutti come il cambiamento climatico sarà un colpo molto duro alla realizzazione dell’Agenda».

Che cosa stanno facendo i paesi in questo senso?
«Questo è il tema vero: se non ho dubbio alcuno che i paesi in via di sviluppo saranno molto rapidi a impegnarsi sugli Sdgs, anche perché vengono dall’esperienza degli Obiettivi del millennio (Mdgs), la vera questione è come faranno i paesi sviluppati a inserire i principi e gli obiettivi dell’Agenda nei loro programmi politici. Gli esempi virtuosi non mancano: i paesi scandinavi sono molto attenti, com’è loro solito, e l’istituzione del ministero del Futuro in Svezia, che controlla in chiave futura tutte le iniziative degli altri ministeri, lo conferma. Sarebbe molto bello fare una cosa del genere anche in Italia, e in effetti quando ero ministro c’era l’accordo con Letta di trasformare il Cipe, il comitato interministeriale per la programmazione economica, nel comitato interministeriale per lo sviluppo sostenibile, ma non c’è stato il tempo di farlo. La questione è quindi la seguente: in Italia c’è la consapevolezza che l’Agenda non riguarda solo i paesi in via di sviluppo? Ci è appena stata proposta una legge di stabilità che, almeno in apparenza, non include nessuno di questi principi, anche se le azioni positive non mancano. Nel campo dell’educazione, per esempio, si tratta di partire oggi per raggiungere gli obiettivi con chi avrà 15 anni nel 2030: ogni anno perso in questo senso costringe poi a inseguire. Per questo è importante che si crei nella società civile italiana una rete in grado di spingere verso questa consapevolezza».

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