L'8 settembre 1943 dei cattolici padovani

La prima resistenza che maturò nel mondo cattolico padovano all'indomani dell'armistizio fu l'aiuto ai fuggitivi. Ma presto andò maturando nelle riflessioni di preti e laici più attenti una nuova coscienza che alimentò il dissenso nei confronti del regime di Salò e contribuì in maniera sostanziale alla nascita della Resistenza.

L'8 settembre 1943 dei cattolici padovani

«In meno di 24 ore l’iniziale euforia, seguita l’8 settembre 1943 all’annuncio della firma dell’armistizio con gli alleati, lasciò il campo a uno stato d’animo carico di ansie e di timori per l’avvenire. La festa collettiva, spontaneamente messa in scena la sera sulle piazze e lungo le strade dei piccoli e dei grandi centri urbani della penisola, non era ancora finita che un senso di sgomento prese i soldati e la popolazione civile (...) Tra i membri più attivi a promuovere il soccorso (degli ex prigionieri inglesi) figuravano laici e sacerdoti che subito dopo l’8 settembre presero coscienza delle proprie responsabilità anche di fronte alle scelte rischiose che in una situazione di emergenza, com’era quella italiana, erano invitati a fare».
Così inizia il saggio scritto da mons. Pierantonio Gios a introduzione delle testimonianze di don Giovanni Fortin e di Milena Zambon sulle vicende che li condussero Dal soccorso ai prigionieri inglesi ai campi di sterminio tedeschi (Associazione volontari della libertà, 1987). A poco più di un mese dalla scomparsa del direttore della biblioteca capitolare, che ha dedicato lunghi studi al ruolo della chiesa e dei cattolici durante il periodo dell’occupazione tedesca e della resistenza, le parole di questo vecchio saggio appaiono illuminanti per chiarire l’attenzione che questo storico della chiesa padovana ebbe per le molteplici forme in cui si manifestò l’opposizione all’occupazione tedesca del territorio veneto.
«Subito dopo l’armistizio – commenta Chiara Saonara, la studiosa di storia autrice del recente volume Una città nel regime fascista. Padova 1922-43 – appare immediata la reazione dei preti e delle associazioni cattoliche più importanti, dall’Azione cattolica alla San Vincenzo, che si dedicarono con molto coraggio all’assistenza e all’aiuto dei bisognosi, dagli ex prigionieri ai soldati sbandati, dagli ebrei agli sfollati fino agli antifascisti che si erano messi in luce dopo il 25 luglio e ora dovevano nascondersi. Si organizzò l’ospitalità, si offrirono viveri, si cercò anche di individuare e attivare le vie di fuga».

Tra i tanti eroismi individuali e collettivi, che lo stesso Gios ammette essere troppi per narrarli tutti, emergono i nomi di don Fortin, di padre Placido Cortese, di Ezio Franceschini e delle sorelle Martini che facevano capo al gruppo Frama.
«Il loro – sostiene ancora Chiara Saonara – fu un gesto determinato più ancora che dall’antifascismo dall’impulso a schierarsi dalla parte dei poveri. I preti più avvertiti si rendono conto che la situazione è profondamente cambiata, che non c’è più uno stato sicuro, che i parroci stanno diventando i punti di riferimento alternativi a poteri pubblici vacanti o screditati. L’opposizione trova un obiettivo chiaro nell’invasore germanico. Per il Veneto si tratta del “nemico” classico, quello con cui si era combattuto sulle soglie di casa appena 25 anni prima. Un nemico spietato, che non si ferma davanti a niente e nessuno, esponente di un regime nazista che il papa aveva indicato come pagano, come “anticristo”».
In questa situazione va maturando l’atteggiamento del mondo cattolico, dei preti ma più ancora delle associazioni cattoliche che si rivelano elemento chiave della crescita antifascista, anche perché era uno dei pochi ambiti rimasti di incontro e di confronto d’idee. Nelle comunità in cui il parroco si avvale della collaborazione di un gruppo di laici sensibili si aprono le canoniche ai gruppi partigiani, quando non sono esplicitamente comunisti, il che in Veneto accade raramente.
Già nel 1938, con il varo delle leggi razziali, nelle presidenze di Ac aveva cominciato a manifestarsi il dissenso, si comincia a pensare d’essere giunti all’ultimo atto del regime fascista. Poi, durante la guerra, i dissensi si fanno più intensi.
«Bisogna però tener conto – conclude la studiosa – che i fascisti avevano molta paura del dissenso cattolico, ritenevano che l’opposizione della chiesa fosse un pericolo grave; erano informati capillarmente di quello che succedeva nelle riunioni. E non solo. Nella mie ricerche in archivio di Stato mi sono imbattuta in numerosi sequestri di bollettini parrocchiali che i carabinieri erano chiamati a effettuare perché accusati di disfattismo a causa della pubblicazione di alcune lettere dal fronte...».

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