Tangentopoli vent'anni dopo

Un problema di norme ma anche un deficit di cultura alla base dei fatti che mercoledì scorso hanno portato alla deflagrazione di un'inchiesta che coinvolge politici, imprenditori e questa volta anche branche dello stato. I peggiori spettri escono 22 anni dopo dagli armadi ammuffiti della Tangentopoli "madre" e infestano, a partire dal progetto "Mose", una serie di grandi opere venete. 

Tangentopoli vent'anni dopo

Ci risiamo. Attendiamo lo sviluppo delle indagini, diamo per scontata la presunzione d’innocenza che vale per tutte le persone coinvolte nella nuova tangentopoli. Ma la deflagrazione di mercoledì ha intontito per il boato mediatico e le dimensioni del cratere fumante che ora fa bella mostra di sé nel terreno della politica e dell’imprenditoria, e ha intaccato persino esponenti di rilievo delle forze dell’ordine.

Ci risiamo. O ci siamo ancora, ci siamo tuttora nel malaffare che a più ondate, a partire dalla Tangentopoli “madre” del 1992, sta continuando ad attanagliare il nostro paese, la nostra regione, le nostre città. Le accuse – si parla di corruzione, concussione, favoreggiamento, fatture inesistenti, finanziamento illecito ai partiti – farebbero intravvedere un sistema che, alimentandosi attraverso fondi neri ed evasione fiscale, finanzia partiti di diversi colori, campagne elettorali o singoli personaggi potenti (in questo frangente soprattutto loro – parrebbe – più ancora che i partiti di provenienza), alterando il mercato e la concorrenza. Risultato: la corruzione fa costare di più le opere pubbliche, innalza la pressione fiscale, anestetizza la concorrenza tra le imprese migliori. E rende la politica la parodia di se stessa, uno spettacolo in cui il potere ha la maschera dei peggiori luoghi comuni.

Perché 22 anni dopo, solo con meccanismi più sofisticati ma nella sostanza uguali, nulla è cambiato? Dal procuratore aggiunto Carlo Nordio, che ha vissuto appieno anche l’esperienza della Tangentopoli degli anni Novanta, viene l’indicazione di semplificare le norme, perché se sono troppe le porte da aprire prima di dare avvio a un’opera è più facile che si debba oliare quella che cigola o che gratta. Una classe politica che non vuole restare sommersa dall’ondata di sdegno che sta montando nel paese provi a dare ascolto a questa voce.

C’è poi però, ne siamo convinti, anche un problema culturale. Troppo facilmente si accetta un sistema torbido, non si denuncia ciò di cui si viene a conoscenza, si accettano compromessi. Alcuni tra gli imprenditori nel migliore dei casi chinano la testa pur di poter lavorare; nel peggiore sanno bene chi manovrare e come convincerlo. Alcuni tra i politici considerano normale amministrare il potere con il sistema dei favori: dal posto di lavoro all’appalto, passando per la ricerca del consenso a buon mercato. Una nuova cultura della legalità, che convinca del fatto che l’onestà è conveniente, deve tornare a far parte nel nostro dna. Si deve evitare di sparare nel mucchio, certo: ma a patto di saper colpire i responsabili, evitando l’impunità. Altrimenti anche questa ennesima vicenda, insieme a quella dell’Expo milanese, non avrà insegnato niente.

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