Domenica il mondo celebra i caschi blu dell'Onu

“Rendere onore ai nostri eroi”. Con questo motto domenica 29 maggio si celebra la Giornata internazionale delle forze di pace delle Nazioni unite. Si tratta di un anniversario: esattamente 68 anni fa, era il 1948, il consiglio di sicurezza istituì la prima operazione di pace Onu per la supervisione della tregua in Palestina (Untso). 

Domenica il mondo celebra i caschi blu dell'Onu

La decisione di indire una giornata dedicata ai caschi blu risale al 2001.
«Rendere omaggio agli uomini e alle donne che hanno prestato servizio nelle operazioni di pace e onorare la memoria di coloro che hanno perso la vita in nome della pace», la motivazione indicata dall’Assemblea generale riunita a New York nel Palazzo di vetro.

Gli eroi a cui le Nazioni unite intendono rendere omaggio sono i 3.400 peacekeeper – soldati, corpi di polizia e civili – che nel corso di quasi sette decenni hanno perso la vita in missioni di pace, inclusi i 128 che non hanno fatto ritorno a casa nel 2015.
È proprio a questi 128 caschi blu che lo scorso 19 maggio, durante una celebrazione presieduta dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, è stata assegnata la medaglia postuma intitolata a Dag Hammarskjöld.

Le sfide dell’oggi

In questo momento sono 16 le missioni di pace attive in tutto il mondo.
In primo piano rimangono le operazioni in Sud Sudan, dove 200 mila civili hanno cercato rifugio in questi anni all’interno delle basi Onu.
In Mali le perdite sono state pesanti: due caschi blu hanno perso la vita a metà marzo in un tragico incidente: un militare ha fatto fuoco per errore su tre commilitoni uccidendone due e ferendo lievemente il terzo.
La missione più importante a livello numerico è quella nella Repubblica Democratica del Congo (Monusco) dove il personale impegnato supera le 26 mila unità, di cui 4 mila civili e 500 volontari. Le operazioni, iniziate nel 2010, hanno lo scopo di stabilizzare il governo locale e proteggere la popolazione dai numerosi attacchi dei ribelli.
Le altre missioni sono dislocate nell’area dell’Abyei – tra Sudan e Sud Sudan, con il compito di sminare il territorio e presidiare la pace tra i due stati – nel Darfur e ad Haiti. Altri contingenti si trovano poi in Costa d’Avorio, in Liberia e in Kossovo.
Durano tuttora missioni divenute ormai storiche, come quella del Libano iniziata nel 1978, nel Golan (tra Israele e Giordania, 1974), a Cipro (1964), tra India e Pakistan (gennaio 1949) e la prima in assoluto, in Palestina dal maggio 1948.

In questo momento sono più di 125 mila i peacekeeper, provenienti da 123 nazioni.
Nel 2015 sono stati spesi per queste operazioni 8,5 miliardi di dollari: meno dello 0,5 per cento della spesa militare mondiale, come sottolinea l’Onu.

Successi e fallimenti

In questi 68 anni sono state 71 in totale le missioni di pace.
Forte impulso è venuto con la segreteria dell’egiziano Boutros-Ghali (1992-1996) scomparso lo scorso febbraio. Accanto a interventi passati alla storia per la loro efficacia, non mancano però i fallimenti.
Importanti sono state le missioni già ricordate in Palestina, India e Pakistan e Libano, compresa Unifil 2 ai tempi del governo D’Alema.
Fondamentale per la sua riuscita anche quella in Guatemala, iniziata nel novembre 1994, con l’assenso dello stesso governo accusato di vessazioni nei confronti della popolazione.
Molto discussa, al contrario, è la missione iniziata nel 2014 nella Repubblica Centroafricana. Da gennaio 2016 si rincorrono voci di abusi sessuali da parte di caschi blu. A febbraio l’Onu ha rimpatriato 120 soldati congolesi accusati di violenze nei confronti di giovani donne. Per tre di loro il 5 aprile si sono aperte le porte del tribunale di Kinshasa: a processo devono rispondere delle accuse di stupro e tentato stupro, assieme a 18 loro compagni.

Tra i fallimenti più gravi, quello passato alla storia come il genocidio di Srebrenica avvenuto nel luglio del 1995, quando le truppe del generale Ratko Mladic massacrarono ottomila musulmani bosniaci mentre il contingente Onu, guidato in quel momento dagli olandesi, non riuscì a prevenire l’attacco all’enclave, decretata area sotto protezione due anni prima.
Drammatica fu la condotta del Dipartimento per le missioni di pace dell’Onu anche nel 1994, quando in cento giorni si consumò il massacro del Rwanda: un milione di morti, in grande maggioranza di etnia tutsi.
Il maggiore canadese Romeo Dellaire, a capo delle forze armate sul territorio, avvertì la struttura dell’imminente genocidio con un fax inviato a New York il 20 aprile. Ma il documento non venne spedito né alla segreteria generale né al consiglio di sicurezza, così il massacro passò nella totale indifferenza dell’Occidente, che percepiva questi fatti come lontani dai propri interessi.

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