Serbia, un futuro intriso di passato

Vent’anni dopo la fine delle guerre derivate dalla dissoluzione della Jugoslavia, il Paese rimane sospeso tra la voglia d’Europa e gli antichi retaggi etnici di stampo balcanico. L'economia mostra segni di vitalità, ma la disoccupazione si aggira oltre il 15 per cento e le condizioni di lavoro rimangono difficili. Retribuzioni medie attorno ai 350 euro; dipendenti che non ricevono regolarmente lo stipendio; norme di sicurezza, diritti e prestazioni sociali ancora lontane dai livelli europei.

Serbia, un futuro intriso di passato

Sono passati quasi vent’anni dall’ultima guerra con cui si è concluso il lungo processo di dissoluzione violenta di quella che era la Jugoslavia del maresciallo Tito.
I ricordi e i lasciti di quel periodo tormentato dovrebbero essere stati definitivamente superati dalla voglia di tutti quei popoli di voltare radicalmente pagina, aspirando a una convivenza civile e pacifica: la sola che possa assicurare le condizioni politiche per lo sviluppo economico, la crescita del tenore di vita e la realizzazione di società nelle quali possano essere garantiti libertà e diritti delle minoranze in un contesto pienamente democratico.

I conflitti in Croazia, Bosnia Erzegovina e Kosovo alimentarono una spirale di carneficine, perpetrate con i tratti della pulizia etnica funzionale a una strategia di disseminazione del terrore, con l’obiettivo di eliminare ogni traccia di presenza dell’etnia nemica. Si susseguivano operazioni belliche per occupare e annettere territori confinanti esterni, oppure per costringere alla fuga minoranze interne, in un gioco di composizione e scomposizione di nuovi assetti etnici e territoriali.

Quello che l’Europa è stata troppo spesso nella sua storia – cioè terra di guerre economiche e di religione, di nazionalismi e persecuzioni – si ripeteva per l’ennesima volta nella disgregazione della Jugoslavia, in un contesto (quale quello balcanico) reso particolarmente complicato nel corso dei secoli da eventi e vicissitudini che hanno portato a convivere e a scontrarsi culture, religioni e mentalità molto diverse tra di loro, con rovesciamento di fronti, contrapposizioni e tensioni che sembravano non avere mai fine.

Questa è la premessa imprescindibile da cui si deve partire per osservare con sguardo critico la realtà della Serbia di oggi, sospesa tra il desiderio di un futuro veramente nuovo e i richiami di un passato non ancora del tutto tramontato.
La modernità e gli stili di vita di Belgrado e delle principali città rimandano alle immagini che si presentano in qualunque altra città europea. Negozi alla moda, forniti di capi di abbigliamento costosi, griffati con i marchi degli stilisti più famosi; bar e ristoranti molto affollati; le vie del centro pervase da passanti in cerca di svago e acquisti.
Il paesaggio cambia quando si inizia a spostarsi verso le periferie o le aree circostanti, dove palazzi scrostati e marciapiedi un po’ dissestati sono lì a testimoniare che, in realtà, il paese vive ancora condizioni economiche precarie.

Dal punto di vista macroeconomico, il quadro è sicuramente abbastanza stabile, considerati i valori del deficit e del debito pubblico, attestati rispettivamente attorno al 2 e 73 per cento.
La crescita del prodotto interno lordo nel 2016 è stata del 2,7 per cento e il costo del denaro è passato dal 9 al 4 per cento. Gli investimenti esteri, attirati attraverso incentivi economici e accordi di libero scambio con Russia e Turchia, hanno generato migliaia di nuovi posti di lavoro. La disoccupazione, tuttavia, si aggira oltre il 15 per cento e le condizioni di lavoro rimangono difficili. Retribuzioni medie attorno ai 350 euro; dipendenti che non ricevono regolarmente lo stipendio; norme di sicurezza, diritti e prestazioni sociali ancora lontane dai livelli europei.

Se si parla con la gente, l’ingresso nell’Unione Europea da molti è visto come il necessario salto di qualità per lasciarsi alle spalle una volta per tutte i retaggi dell’appartenenza balcanica, mentre per tanti altri la Serbia dovrebbe semplicemente rimanere fedele alla propria cultura e alle proprie tradizioni.

Per questi ultimi l’Europa, da sogno, si trasforma in un titano antidemocratico che divora le identità nazionali e le libertà dei popoli. C’è chi ricorda con nostalgia l’età dell’oro della Jugoslavia titina: anni di gloria e grandezza nazionale. Oggi invece, secondo loro, la Serbia si sarebbe trasformata in piccola insignificante repubblica, pronta a lasciarsi fagocitare dalla protervia europea. Del resto i serbi hanno sempre vissuto circondati dai fantasmi dell’aggressività dei paesi vicini e nell’incubo delle pretese egemoniche e dei giochi d’interesse di potenze più grandi di loro.

In particolare, oggi viene ancora vissuta come un’insanabile ferita al loro orgoglio e alla loro identità la sottrazione del Kosovo, considerato un lembo imprescindibile della culla della loro civiltà, perché lì un’alleanza di eserciti cristiani combatté contro i musulmani dell’Impero ottomano una storica battaglia, che ha alimentato nei secoli il sentimento dell’epica nazionale serba. Oggi il Kosovo è abitato per oltre il 90 per cento da albanesi, in prevalenza musulmani che, in seguito alla dissoluzione della Jugoslavia, rivendicarono a loro volta l’indipendenza da Belgrado. Ne scaturì un’altra guerra tra il 1998 e il 1999, conclusa solo con i bombardamenti della Nato non solo in Kosovo, ma anche nella stessa Serbia e in particolare nella capitale Belgrado.

Complessivamente morirono circa 2.500 serbi, i cui nomi sono ancora riportati in un gigante striscione posto davanti al parlamento.
Così capita di ritrovarsi a cena nei ristoranti, dove i piatti abbondanti di carne vengono serviti accompagnati dalle esibizioni di gruppi che suonano musica balcanica tradizionale, intrisa anche di riferimenti patriottici. I clienti dei locali non si limitano ad ascoltare, ma vengono spesso coinvolti nei canti.

Si percepisce un’atmosfera di intensa partecipazione emotiva, difficilmente spiegabile senza considerare un forte sentimento di appartenenza nazionale.
Quel sentimento che nei Balcani spesso è sfociato in nazionalismo; quel nazionalismo che è stato la causa di tante tragedie e che, ancora oggi, in parte, mantiene la Serbia imbrigliata nella rete del suo passato.

Stefano Verzè

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