Una vita sotto la benedizione dei morti

Possiamo confidare che il rapporto tra noi e chi è morto sia di preghiera, speranza e augurio. Nessuna pretesa, ma solo apertura “invocante”, attesa di benedizione, pace, buona memoria. La riflessione di Giuseppe Toffanello in occasione della commemorazione dei defunti.

Una vita sotto la benedizione dei morti

L’inverno scorso sono stato in Thailandia per un corso di esercizi spirituali con i nostri missionari. Con noi c’erano due suore saveriane, che stavano preparandosi al trasferimento in un villaggio lontano. Dovevano abitare in una casa che la gente del luogo considerava infestata dagli spiriti. Vi avevano abitato delle donne malate, la cui morte non era stata augurabile: queste anime irrequiete non se n’erano certo andate a un destino migliore; il loro congedo dalla vita non era stato sereno e perciò potevano ancora aggirarsi nel luogo e renderlo inospitale.

Anche qui da noi qualcuno mi ha parlato, specialmente nel passato, di un incontro, in genere notturno, con un defunto, specialmente se morto da poco tempo. L’incontro in genere era in sogno, ma a volte poteva essere nel dormiveglia. La persona defunta poteva apparire triste, incapace di compiere qualcosa, in qualche modo imprigionata, inaccessibile; a volte diceva come stava o chiedeva qualcosa... Chi mi rivolgeva questi racconti in genere mi chiedeva preghiere o messe per chi li aveva visitati: il morto non stava bene là dov’era. Spesso, celebrate delle messe e pregato con insistenza, la persona defunta faceva capire di essere in pace: o apparendo serena, o dicendolo con parole. Altre volte la persona visitata sentiva che i suoi stessi pensieri erano diventati di pace.

Provo molto rispetto e tenerezza per questi intrecci tra chi è partito da questo mondo e chi resta ancora qui sentendosi in qualche modo in debito con la persona che se n’è andata. Quando una persona se ne va, si possono provare le più diverse reazioni. Ci si può sentire in pace; a volte si rifiorisce perfino, come liberati. O al contratio ci si può sentire abbandonati, soli. Una donna mi ha confidato che quando la nonna è morta è morta anche una parte di lei: lo sguardo della nonna, le sue parole, le sue preghiere la rassicuravano, le davano quella stima, quella considerazione, quella dignità che lei non riusciva a darsi. Spesso l’amore di qualcuno tiene insieme tutto della nostra persona, anche le cose che noi fatichiamo ad accettare; ci dice che “esistiamo”; e quando chi ci ama non c’è più perdiamo anche qualcosa di noi stessi.

A volte chi se ne va era un buon complice di un nostro segreto e adesso torniamo a essere soli con il nostro peso. Oppure la persona defunta porta con sé un segreto che ci riguarda e che non ci ha mai detto, e ci pare di essere mancanti di qualcosa... Ma può anche succedere che la persona morta non se n’è proprio andata del tutto. Resta dentro di noi: non come ricordo di benedizione, di affetto, di riconoscenza, ma come peso, fatica. Qualcosa che non le abbiamo perdonato resta in noi a occupare spazio interiore, e non riusciamo a liberarcene.

Oppure in noi può esserci il non-perdono di chi è partito, certe parole che ha detto e non ha mai smentito, dei silenzi pieni di rifiuto. I sensi di colpa allora ci rodono, ed è troppo tardi! Una parte dell’altro resta in noi a bloccarci. Ma ci possono essere dentro di noi anche parole nostre che non abbiamo mai detto, e che ci dispiace di aver taciuto: un complimento, un grazie, una espressione di gioia, un «ti voglio bene», un «mi dispiace, ti chiedo scusa». L’altro probabilmente aveva già capito quel che non abbiamo detto, ma dirlo sarebbe stato così semplice, così naturale. Oppure ci portiamo dentro domande mai poste che ci dispiace di non aver chiarito. O parole che ci son state dette, che non abbiamo capito, e su cui non abbiamo avuto il coraggio di chiedere.

Le vite degli altri ci appartengono molto più di quanto pensiamo, e la loro morte spesso ci riguarda molto più di quello che possiamo pensare, o come benedizione o come peso (o addirittura maledizione). A persone che vivono la partenza di un defunto come una diminuzione della loro vita stessa, oggi in genere vengono orientate verso gli psicologi, che le aiutino a elaborare il lutto. Una donna con cui ho un po’ di confidenza mi diceva che quello che le è mancato nella psicanalisi era il Cristo. Certo, chi conosce per quali vie ci facciamo male e per quali vie possiamo custodire la vita può darci lo sguardo e le parole intelligenti di cui abbiamo bisogno. Ma anche la fede nel Signore risorto, se non è posticcia ma confidente, offre percorsi di vita stupendi. Perché Dio è “il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe”, un Dio dei vivi, non dei morti, un Dio che ascolta e scende a liberare perché ha sentito il grido del suo popolo.

I cristiani sanno di poter parlare con i loro defunti. Se Gesù ha fatto quel che ha fatto per noi, la morte più che un temibile giudizio ci appare oggi l’occasione di incontrare davvero Dio. Dio, nel suo amore, incontrandoci, ci dà quella forma, quella umanità che abbiamo cercato in profondità, magari purificandoci dagli equivoci e dalle miserie della vita mortale (se il nostro cuore davvero cercava Lui). Per questo noi che siamo vivi confidiamo di essere ascoltati dai nostri defunti, quando parliamo con loro. Non abbiamo il bisogno di sentire la loro risposta, perché, se sono nel Signore, non possono non capirci. Possiamo confidare che il bene, la stima, lo sguardo che ci hanno donato da vivi non sono scomparsi ora che sono con il Signore: quello che ci hanno dato veniva dal Signore, e in lui veniamo ancora amati, stimati, guardati.

A volte in bicicletta vengo “stirato” da qualche macchina che mi sfiora: un pelo e sarei travolto. Guardo in alto, con riconoscenza: ho impressione di essere benedetto dai miei genitori. Una fantasia, certo, ma la fantasia di non essere amato mi pare ancor meno vera. Possiamo anche confidare di far pace con chi ci ha lasciato senza pace, di poterci chiarire, di poter chiedere e dare perdono... Ma soprattutto possiamo confidare che il rapporto tra noi e chi è morto sia un rapporto di preghiera, di speranza, di augurio. Nessuna pretesa, ma solo apertura “invocante”, attesa di guarigione, di benedizione, di pace, di buona memoria. Anche i figli rifiutati, abortiti, possono con il tempo diventare, nel Signore, non ricordo che lacera, ma intercessione invocante. Come quella di Gesù che presso il Padre invoca benedizione su chi l’ha rifiutato. Dio stesso è un rifiutato che bussa alla nostra porta. Se Dio c’è, è un Dio di vivi, non di morti. Parola di Gesù!

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