Mondiali di cittadinanza? L’Italia può vincerli

Alcuni ragazzi discutono sulla mancata qualificazione dell'Italia dai mondiali. Anche Mohamed, nato in Italia da genitori di origine marocchina sente la tristezza di questa sconfitta, sebbene la legge non gli riconosca la stessa dignità dell'amico Giorgio. Ecco come da una discussione sul calcio sia in gioco la stessa concezione di Stato e Nazione e il modello di inclusione.

Mondiali di cittadinanza? L’Italia può vincerli

È l’argomento del giorno: l’Italia ha mancato la qualificazione ai Mondiali di calcio 2018. Anche nel baretto della scuola, alcuni ragazzi discutono animatamente. È un gruppo scelto, fatto di calciatori in erba delle squadre locali. Se sulle cause del fallimento della Nazionale le opinioni sono alquanto diverse, tutti concordano nel definire l’aver perso il biglietto per la Russia una tragedia. Passano i minuti e, nonostante il tono rimanga mesto, quel condividere la grande delusione sembra accrescere tra i ragazzi l’affiatamento e il legame d’amicizia.

L’atmosfera s’incrina quando, a un tratto, Giorgio guarda Mohamed e gli dice: «Tu sei l’unico felice, perché la tua nazionale si è qualificata!». Voleva solo, forse, fare una battuta, ma non trova sponda e la risposta dell’interessato è piccata: «Io sono nato in Italia!».

Giorgio, sorpreso dalla reazione e preoccupato di perdere l’ultima parola, ribatte: «Però non sei ancora cittadino italiano».

La frase deflagra nel gruppo. I compagni, imbarazzati, restano in silenzio. Mohamed, palesemente umiliato e arrabbiato, si alza e va via, lasciando l’altro ragazzo a ripetere come un disco rotto: «Cosa ho detto di sbagliato?».

Giorgio è bravo in diritto e non ha detto niente di sbagliato: anche se Mohamed è nato in un ospedale italiano, parla correttamente italiano, frequenta da sempre la scuola italiana, tifa per la Nazionale italiana, non è cittadino italiano. Si sente italiano, ma non è riconosciuto tale. Condivide tutto con i suoi coetanei, ma c’è una parete di vetro che lo mantiene straniero in casa sua. Perché l’Italia è la sua casa, il Marocco l’ha visto solo le poche volte che è andato a visitare i nonni e gli zii.

Sono anni ormai che si sta dibattendo sull’accesso alla cittadinanza da parte dei figli di stranieri nati in Italia e sugli opportuni criteri giuridici per attribuirla.

Vengono spesso evocati lo ius sanguinis (diritto del sangue) e lo ius soli (diritto del suolo). Sembrava avesse trovato consenso e validità lo “ius soli temperato”. La legge, che rischia non essere approvata in via definitiva al Senato, prevede che i minori stranieri nati in Italia potranno ottenere la cittadinanza italiana, se rispettano alcune condizioni come la frequenza scolastica o il possesso di un permesso di soggiorno permanente o di lungo periodo di uno dei due genitori. Ma la questione è entrata nella centrifuga della propaganda elettorale e si rischia di ritornare in alto mare. Cosa c’entra in tutto questo il fanatismo religioso, il terrorismo, l’immigrazione clandestina o la perdita dell’identità nazionale?

Si fomentano paura e confusione, quando invece necessitano lucidità e lungimiranza per capire e spiegare che in gioco c’è la concezione stessa di Stato e di Nazione, il modello di inclusione e il significato umano-morale di straniero.

Abbiamo davanti a noi una sfida culturale. Il nodo della cittadinanza può diventare davvero lo snodo per sperimentare un’appartenenza al proprio paese che non sia solo legata al “suolo” o al “sangue”, ma si fondi sulla condivisione di una cultura dove le storie, di tutti coloro che sono presenti, si intrecciano tra loro. Una cultura polifonica e aperta al contributo di tutti, capace di sostenere e orientare un’Italia più matura e dinamica, che per questo non ha paura di essere inclusiva.

Un’Italia che non umilia Mohamed, ma lo accoglie e lo educa perché sia fiero di essere un suo cittadino.
Al punto di permettergli di giocare in Nazionale e magari di vincere i Mondiali.

Stefano Bertin

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