Disabili psichici. Giagnotti: “Superare lo stigma e ridare dignità attraverso il lavoro”

“Da 25 anni facciamo un lavoro intenso di comunicazione, sensibilizzazione, informazione scientifica: non sminuiamo le caratteristiche della malattia mentale ma abbiamo anche la consapevolezza che può essere curata e la persona può riacquistare una qualità di vita eccellente, può essere utile a se stessa, alla famiglia e alla società”, dice al Sir la presidente di Fondazione Progetto Itaca

Disabili psichici. Giagnotti: “Superare lo stigma e ridare dignità attraverso il lavoro”

La disabilità psichiatrica sia considerata alla pari delle altre forme di disabilità, innanzitutto sul fronte lavorativo. È la battaglia che porta avanti Fondazione Progetto Itaca, realtà nazionale che da 25 anni è impegnata in attività di informazione, prevenzione, supporto e inclusione di persone con disturbi psichiatrici e dei loro familiari, tanto da aver anche inviato una lettera al ministro per le Disabilità, Alessandra Locatelli. Ne parliamo con la presidente, Felicia Giagnotti, che a febbraio 2023 è stata nominata dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana “per aver creato una rete nazionale a favore delle persone che soffrono di patologie della salute mentale offrendo loro l’opportunità di un percorso di reinserimento nella società civile”.

Il disabile psichico deve affrontare maggiori difficoltà di una persona con una disabilità fisica?

La disabilità psichica viene considerata più un problema di salute, quindi attinente al Ministero della Salute, che non un problema di disabilità, anche se si tratta di un problema di salute mentale, quindi attinente anche a chi si occupa di disabilità. Le categorie di disabili sono tantissime. La legge n. 68/99 regola l’inserimento lavorativo per le categorie fragili e quindi disabili in genere e dovrebbe applicarsi anche alla disabilità psichiatrica, ma di fatto quest’ultima viene automaticamente esclusa.

Quindi dal punto di vista della legge vengono equiparati i disabili psichici agli altri disabili, ma la differenza sta nella prassi: i malati psichici non sono mai chiamati dalle liste dove sono presenti tutte le altre forme di disabilità.

Le aziende che superano le 15 unità sono obbligate ad assumere una certa percentuale di disabili, altrimenti si pagano penali. Molte aziende preferiscono pagare le penali, altre assumono disabili attingendo alla graduatoria specifica. In questo contesto i malati psichici non sono mai chiamati. Non solo: è impossibile assicurare un disabile psichico, perché le assicurazioni considerano quella psichica una disabilità non governabile.

Perché avviene questo?

Innanzitutto, il disabile mentale, psichico, viene considerato come un soggetto di cui si teme il comportamento, non come persona pericolosa, ma sicuramente come uno che può creare tanti problemi. Di conseguenza l’inserimento lavorativo non viene visto come possibile per la mentalità diffusa che considera il malato psichico come un soggetto poco affidabile, che non guarisce mai, che può creare problemi e che resta sempre un malato mentale. Questo è uno stigma, un pregiudizio. Oggi le cose sono molto cambiate dai tempi dei manicomi: con la farmacologia, la prevenzione, diagnosi precoci, cure fatte bene e adeguate, la malattia mentale si può tenere sotto controllo e la vita delle persone che hanno questo problema può essere normale.Il lavoro e l’autonomia personale in questo processo di ripresa, di riabilitazione, intesa in senso ampio, sono fondamentali perché forniscono autostima, sicurezza economica, la sensazione di fare cose utili per se stessi e per gli altri.Ovviamente, siamo ben consapevoli che ci sono persone in grado di lavorare e altre no, perché ad esempio hanno un cattivo rapporto con la malattia, non rispondono bene alla terapia. Ma come tutte le malattie, anche quella mentale può essere curata. In questo senso, confinare la malattia mentale esclusivamente a un problema di salute e, pertanto, di competenza solo del Ministero della Salute è frutto di un pregiudizio secondo il quale il malato mentale può far male non solo a se stesso ma a tutta la società.

Ce ne rendiamo noi che da 25 anni facciamo un lavoro intenso di comunicazione, sensibilizzazione, informazione scientifica: non sminuiamo le caratteristiche della malattia mentale ma abbiamo anche la consapevolezza che la malattia mentale può essere curata se diagnosticata per tempo e ben seguita e la persona può riacquistare una qualità di vita eccellente, può essere utile a se stessa, alla famiglia e alla società, può esercitare la sua cittadinanza.

Perché ha scritto una lettera al ministro Locatelli?

C’è un Osservatorio sulle disabilità che è stato potenziato dal ministro Locatelli che in questo ambito sta dando grande impulso: in questo Osservatorio sono rappresentate le disabilità, ma non quella psichica.

Nella lettera le ho chiesto che anche questo tipo di disabilità sia rappresentata e si superi questo tipo di discriminazione tra i discriminati.

Auspichiamo che ci sia collaborazione tra Ministero della Salute e Ministero della Disabilità. Inoltre, grazie all’esperienza maturata negli anni – oggi abbiamo 17 sedi, 12 Club e seguiamo centinaia di pazienti e familiari in tanti progetti –, potremmo offrire il nostro contributo nell’Osservatorio della disabilità e in tutti i tavoli su cui si opera al fine di rappresentare una disabilità non adeguatamente riconosciuta, favorire nei futuri percorsi legislativi l’inserimento lavorativo di persone con disturbi psichiatrici per il recupero attraverso il lavoro della loro dignità e infine sostenere e promuovere campagne di comunicazione per cambiare la mentalità collettiva sulla disabilità psichiatrica.

La considerazione di questo tipo di disabilità è immutata nel tempo?

Grazie all’impegno che portiamo avanti ci rendiamo conto che sono stati fatti passi da gigante rispetto a quarant’anni fa, ma lo stigma è ancora profondamente radicato nella mentalità collettiva, anche se in alcune zone di meno e in altre di più, a macchia di leopardo, ma esiste e condiziona tutta una serie di interventi, di comportamenti, di immagini collettive sul malato psichico.Noi come associazione siamo nati con l’obiettivo di sensibilizzare e cambiare la mentalità collettiva sulla malattia mentale, sulle persone che ne soffrono e sui loro familiari che sono coinvolti al 100% nella malattia, quindi per combattere l’idea della inguaribilità, della pericolosità sociale, l’idea che un malato mentale è perso per sempre per la società, che deve farsene carico con l’assistenza, con la terapia ma poi finisce lì perché fondamentalmente rimane sempre un malato mentale.

Per realizzare i nostri obiettivi come associazione siamo passati anche a progetti concreti, che ormai sono tanti, ma prima di tutto riguardano la prevenzione. Già dal 2001 abbiamo avviato un progetto di prevenzione nelle scuole informando ragazzi, familiari e insegnanti sulle malattie mentali evidenziando che una diagnosi si può fare per tempo conoscendone i sintomi, che si deve superare la vergogna di parlarne, la paura dello psichiatra, il terrore dei farmaci. È necessario uno sguardo complessivo sulla malattia con un lavoro coordinato tra diverse figure professionali. Questo progetto di prevenzione e informazione sul tema della salute mentale nelle scuole, rivolto ai più giovani, ha avuto la validazione del tavolo tecnico del Ministero della Salute che ha auspicato la diffusione dello stesso in tutto il territorio italiano. Ma, oltre che fare informazione sulla prevenzione, orientiamo le persone a curarsi e le accompagniamo nel loro percorso di cura, abbiamo gruppi di auto-aiuto, corsi per pazienti e familiari in cui cerchiamo di spiegare bene com’è la malattia mentale e come affrontarla.

Cosa avete imparato dalla vostra esperienza?

Occorre dare una grandissima importanza all’inclusione sociale e alla ripresa di rapporti sociali normali e anche all’inclusione lavorativa perché il lavoro è un’esigenza fondamentale dell’essere umano e anche delle persone con malattia mentale.

Naturalmente il problema del lavoro richiede una risposta da parte della società, richiede non solo la legge 68 ma anche una mentalità collettiva e una sollecitazione da parte delle istituzioni ad assumersi a tutto campo il problema della disabilità. Noi abbiamo creato Club in cui le persone vengono per libera scelta, una volta diventati soci lo restano a vita, la partecipazione alla vita del Club è gratuita, ma certamente non possiamo avere nel Club chi è nel pieno della crisi o non si cura. Queste persone ci vengono spesso mandate dai servizi di cura della salute mentale, quando nel loro percorso di cura hanno raggiunto un livello di stabilità anche modesta, non hanno problemi di droga o di altre dipendenze, né di autolesionismo e violenza. Quindi il Club si rivolge in particolare a giovani che dopo anni di malattia hanno trovato la giusta terapia, hanno accettato questo aspetto della propria esistenza, vengono seguiti dai loro medici curanti, però hanno bisogno di riprendere le relazioni sociali e anche di tornare a svolgere un lavoro utile per la collettività.

Dunque, il Club è un centro per lo sviluppo dell’autonomia socio-lavorativa di persone con una storia di disagio psichico, di età compresa tra 20 e 45 anni. I soci sono responsabili del Club e svolgono, supportati dallo staff, attività quotidiane organizzate in aree di lavoro, come amministrazione e segreteria, comunicazione e ufficio stampa, formazione, giardinaggio, cucina, occasioni per il tempo libero, ricerca del lavoro.

Promuovete anche altri tipi di esperienze?

Quando la persona sente l’esigenza di essere operativa abbiamo sviluppato un percorso di inserimento lavorativo che a noi sembra più idoneo. Noi facciamo un servizio per le aziende attraverso un tutoraggio di ragazzi che vanno in azienda: praticamente abbiamo delle persone assunte da noi che seguono i ragazzi del Club nei rapporti con l’azienda, nell’individuare il lavoro che l’azienda vuole, nell’accompagnare la persona e nel monitorare il lavoro che viene fatto.Abbiamo anche attivato il progetto Job Stations, centri di smart working creati presso organizzazioni specializzate nella salute mentale – in costante contatto con i referenti aziendali – dove le persone con storie di disagio psichico possono lavorare al meglio, grazie al supporto di tutor esperti in ambito psicologico.

Presenti in tutte le Job Stations, sono professionisti competenti nel campo della gestione delle persone con disabilità psichica e del loro reinserimento lavorativo, che garantiscono la qualità del lavoro svolto grazie alla loro costante attività di supervisione e supporto. Noi siamo sempre alla ricerca di aziende che offrano lavori adeguati per il nostro target e abbiamo, tra i nostri ragazzi, anche esempi positivi di inserimento lavorativo in aziende.

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