Pasqua tra le pieghe del mondo

«Il mondo ha preso una brutta piega!». Una frase fatta, seppur vera, altamente simbolica se consideriamo che bene e male si nascondono tra le pieghe dell’esistenza.

Pasqua tra le pieghe del mondo

Sono le pieghe del vivere e del vissuto. Della vita e morte. Dai tessuti usati per la festa, a quelli che fungono da lenzuoli funebri. Discorsi che – giustappunto – non fanno una piega, anche in termini d’arte. “Pieghe” che aprono a una visione diversa, un gioco di sguardi dal visibile sull’invisibile. Ecco perché il tempo pasquale, in termini liturgici, si mostra ancora diviso in due tempi colorati non a caso: il viola dei paramenti della Settimana Santa, sostituito poi dal candore del giorno della Resurrezione, dove le pieghe si mostrano come pagine di tessuto. Se nei libri vi è l’atto istintivo del voltare pagina, nel complesso movimento delle vesti troviamo una formale volontà interpretativa, resa ancora più incisiva all’occhio. Come non citare Il Cristo velato nelle chiese nei giorni del lutto divino: immagini scultoree che nella loro macabra nudità, hanno come ultimo atto pietoso il velare la realtà. Ecco allora le crocefissioni venete di Tintoretto, mosse dal continuo fremito del “vento dello Spirito”, che nelle sue grandi tele veneziane scompiglia vesti e pettinature. Ci si perde poi tra le pieghe leggere dei cori celesti che vorticosamente animano il cielo della crocefissione di Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova, che stridono volutamente con quelle scultoree dei restanti personaggi ai piedi della croce. Ma c’è un maestro, Michelangelo Merisi da Caravaggio, che più di tutti lascia parlare le “pieghe”. Che siano tessuti opulenti o miseri cenci, non c’è piega caravaggesca che non diventi messaggio. Pur restando un mistero, perché il maestro del chiaroscuro non si è mai cimentato in una rappresentazione della morte di Cristo in croce, preferendo l’attimo successivo alla morte, come nella monumentale tela della deposizione vaticana, che attinge nella struttura, a quella dipinta un secolo prima da Raffaello Sanzio, oggi a Villa Borghese (Roma). Caravaggio ha scelto altre croci, come quella romana di San Pietro, in un vortice di pieghe. Ha dato forma alla flagellazione, senza mai confrontarsi col momento della redenzione. Così, pieghe su pieghe, la storia dell’arte resta una sterminata enciclopedia simbolica riscontrabile in ogni luogo di culto dove il passaggio pasquale dalle tenebre alla luce ha come punto d’unione tra la vita e rinascita ultima, un’immagine assoluta: la Pietà di Michelangelo Buonarroti. Un tripudio di pieghe mariane che accolgono il corpo straziato di un figlio morto, tale da lasciare senza fiato. Parliamo dell’opera delle opere, dell’icona che senza essere dipinta è immagine piena, dove tra le pieghe della carne del giovane corpo ignudo, è iscritto il passaggio alla resurrezione, che però resta ancora imprigionata nel freddo marmo. C’è così tanta potente bellezza in quella scultura, che ammirare il Cristo vittorioso uscire dal sepolcro di Piero della Francesca o dello stesso Giotto a Padova, è una risposta cromatica al mistero del mattino di Pasqua. Che sia un pennello o uno scalpello, la Pasqua è tutta tra le pieghe immortali lasciateci da Bellini, Beato Angelico, Perugino, Artemisia Gentileschi, Tiziano, Bernini, Borromini, Parmigianino, Correggio. Ognuno si è lasciato provocare dagli ultimi gesti di Gesù, come da primo gesto “scultoreo” del giorno di Pasqua: quel sudario e bende piegate o dispiegate, lasciate sul banco di pietra del sepolcro vuoto. Momento in cui la storia ha preso “un’altra piega”.

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