Assetto del territorio. Anche in Veneto si studia la fusione obbligata dei comuni

La configurazione amministrativa della nostra regione è in movimento. Paolo Feltrin, politologo, chiamato a Praglia dal Partito democratico, è convinto: per il Veneto 70 comuni possono bastare, con un'insospettabile ritorno in voga dell'area vasta (leggi provincia) e un'azione concreta per l'autonomia anche da parte della regione. Presente anche il presidente del consiglio regionale, il leghista vicentino Roberto Ciambetti, che esprime la preoccupazione per un nuovo centralismo in seguito all'approvazione della riforma Boschi.

Assetto del territorio. Anche in Veneto si studia la fusione obbligata dei comuni

“Napoleone addio”: affermazione perentoria, senza punti di domanda, per i più un po’ sibillina, ma chiara e inequivocabile a chi mastica di assetti territoriali, istituzioni, pubblica amministrazione. Che cosa vuol dire? Molto semplicemente che l’organizzazione dello stato “periferico”, quello che da almeno un paio di secoli si articola in comuni, province, poi regioni, ma anche prefetture, enti intermedi (come le camere di commercio, ad esempio), è finito. Non ha dubbi il professor Paolo Feltrin, politologo di casa, ecumenicamente apprezzato da tutto l’arco costituzionale, a cui è stata affidata la relazione di avvio, l’incipit non certo formale, al seminario organizzato da alcuni senatori del partito democratico (Giorgio Santini, Gianpiero Dalla Zuanna), che ha riunito a Praglia un fetta consistente della compagine al governo (in prevalenza di area cattolica) e significativi rappresentanti della cosiddetta società civile.

Il docente non ha dubbi: siamo (ancora) di fronte a cambiamenti, alla necessità ineludibile di ridisegnare i nostri assetti istituzionali, non soltanto a livello centrale (a questo penserà la riforma costituzionale ormai in dirittura d’arrivo, con l’abolizione del senato  e la nascita della “camera delle regioni”) ma anche in periferia. D’altra parte non abbiamo alternative, perché le cose, negli ultimi vent’anni, magari mettendo come punto di riferimento la famosa legge 142 del 1990, sono andate diversamente da come immaginavamo.

Tre le sconfitte previsionali nelle quali siamo incappati e con le quali ora dobbiamo necessariamente confrontarci: l’Europa delle regioni non si è avverata, anzi sono ancora gli stati ad essere punto di riferimento e protagonisti nell’unione continentale; insomma le nazioni non sono finite, anzi; poi non avremmo mai immaginato di ritrovarci con tanti debiti, praticamente sommersi, da cui la necessità di risparmiare, di spendere meno; terzo: nessuno crede più all’ipotesi che il decentramento possa significare un’ottimizzazione, quindi un risparmio delle risorse, visto che la spesa pubblica continua a crescere anche dopo aver delegato a livello locale.

Le conseguenze di queste fallaci convinzioni, o meglio illlusioni, sono state la perseveranza in vecchi errori (i costi), l’incapacità di cogliere nuove opportunità anche tecnologiche («che senso ha avere un’anagrafe in ogni comune»…), la "ridondanza funzionale” (troppi soggetti che si occupano delle stesse cose); l’inadeguatezza di scala (una miriade di enti troppo piccoli). Per Paolo Feltrin questa situazione non è più sostenibile, bisogna assolutamente cambiare, anche se è chiaro che nel pubblico, dove contano le storie, le identità, la geografia, la ricerca del consenso, questo non è agevole e rapido come in azienda.

I tentativi di dare risposte, anche di recente, tutto sommato sono stati un fallimento: i comuni continuano ad essere troppi e piccoli, le fusioni, le unioni volontarie si sono rivelate un’opportunità della quale nessuno vuole approfittare (a parte il caso veneto di realtà montane, come recentemente in Val di Zoldo e Alpago); sulle province, come ente intermedio o area vasta, si perpetua un equivoco di indefinibile prospettiva, anche se l’identificazione, voluta dal governatore Luca Zaia, delle Ulss con le “vecchie”  aree provinciali ha aperto una prospettiva interessante ma che non si sa se avrà seguito; la regione non ha gestito in maniera efficace le opportunità di autonomia.

E allora? Forse bisogna procedere con la mannaia del coraggio: riduzione forzata dei comuni (una settantina in Veneto possono bastare), potenziamento delle dimensioni delle grandi delle città (anche queste troppo modeste), individuazione di un ente intermedio significativo (le vecchie province?), assunzione di responsabilità da parte della regione nel gestire questo processo di mutamento all’insegna dell’autonomia. Su quest’ultimo punto non ha dubbi il sottosegretario Gianclaudio Bressa, ex sindaco di Belluno e sottosegretario per gli affari regionali, che difende senza remore la revisione dell’articolo 5 della costituzione (2001), il fatto che finalmente ora, con l’imminente riforma, le regioni avranno una propria camera dove manifestare presenza ed esigenze, essendo altrettanto convinto che fino ad oggi si è parlato troppo di autonomia («che si vive e non si rivendica») senza praticarla.

Naturalmente su queste accuse non è per nulla d’accordo il governo veneto; il presidente del consiglio Roberto Ciambetti, anch’egli a Praglia al tavolo del Pd, ha seri dubbi, come peraltro già manifestato dal governatore Luca Zaia, sul fatto che in periferia si spenda di più e peggio che non a Roma, teme un ritorno al centralismo, rivendica la necessità di maggiori spazi e risorse per la regione.

Una cosa, al di là delle diversità di posizioni, appare certa:

il territorio e la sua organizzazione è in movimento, un’ennesima transizione che, se portata a compimento, non risparmierà nessuno, a cominciare dai comuni

(che potrebbero essere costretti a cambiare consistenza e confini, come già sta accadendo in Emilia e Toscana), ma anche le province o le aree vaste, che potrebbero trovare una insospettabile rivalutazione, e la regione chiamata a gestire questi processi (il senatore Santini annuncia che il Pd proporrà un immediato disegno di legge in consiglio regionale per ottenere da Roma gli spazi di autonomia consentiti dalla nuova norma: le politiche sociali e quelle attive del lavoro, la gestione del territorio, la scuola, l’università, la tutela dei beni culturali, l’ambiente, il turismo, il commercio estero.…).

Resta, sullo sfondo, un interrogativo: e gli elettori? Che peso avranno in tutto ciò, come saranno coinvolti nei cambiamenti? In un tempo di crisi dei partiti, la domanda è ancora più pregnante e certamente esigerà una risposta, a meno che non si pensi che, dopo tutto, il voto (già minoritario in termini di partecipazione) sia irrilevante di fronte alla esigenze di organizzazione e bilancio.

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Parole chiave: enti (10), locali (1), revisione (1), stato napoleonico (1), provincia (11), assetto (2), comune (35), regione (103), autonomia (20)