Accogliere, proteggere, promuovere, integrare

Il mio campanile... il mondo. Articolare le differenze... anche nei verbi. Perché non basta celebrare la giornata mondiale del migrante e del rifiguiato per aiutare le comunità a capire il fenomeno. Si può partire visitando le nostre comunità religiose immigrate per iniziare un discorso di sensibilizzazione.

Accogliere, proteggere, promuovere, integrare

Dovremo abituarci a questi verbi che papa Francesco sta usando spesso da alcuni mesi.
È un ritornello che ritorna in continuazione insieme ad alcune sue locuzioni caratteristiche come la chiesa in uscita, l’economia dell’esclusione e dell’in-equità, la cultura dello scarto... Vi si scorgono le sue priorità e le sue idee direttrici. Sicuramente i migranti «nostri fratelli e sorelle in cerca di una vita migliore» sono nelle sue attenzioni. Come tutta la chiesa, è preoccupato di superare la logica dell’indifferenza con la logica dell’ospitalità e della condivisione per salvare la vita e promuovere la dignità dei migranti e dei rifugiati.

I termini, nel comune sentire, sono simili ma si riferiscono a situazioni diverse. Bisognerà imparare a distinguerle e a chiamarle con il loro nome proprio per non cadere nell’imprecisione o nella semplificazione: sicuramente i richiedenti asilo sono migranti, ma non tutti i migranti sono richiedenti asilo (sono solo il 2 per cento dei 100 mila presenti in diocesi).

La Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che si celebra in tutta la cattolicità il 14 gennaio per la 104a volta, dovrebbe aiutare tutte le comunità ad acquistare una sensibilità particolare sull’argomento, ad avere informazioni, suggerimenti e idee per la riflessione, a documentarsi sulle comunità presenti sul territorio diocesano. È un lavoro lungo, specialmente in tempi come i nostri in cui non è facile accogliere nuovi arrivati e “allargare la tenda”. Le resistenze, le reticenze o i disagi in questo campo si avvertono a fior di pelle: le migrazioni restano un “nervo scoperto” e un argomento delicato da affrontare sia nella chiesa che nella società.

Sono quattro i verbi proposti dalla Giornata del migrante e del rifugiato e dalla Giornata della pace: accogliere, proteggere, promuovere, integrare.

La tentazione di riunire tutto in solo verbo potrebbe semplificare le cose, ma sarebbe eccessivamente parziale e fuorviante.

È vero che non si può fare tutto, ma è anche vero che si rischia di essere imprecisi e ingiusti scegliendo una sola parte. Dobbiamo tener conto di aver tra noi persone immigrate per motivi economici, “regolari o regolarizzati” che mantengono la loro famiglia rimasta nel paese o vi investono i loro risparmi; ci sono emigrati che stanno progettando la loro attuale installazione come definitiva; ci sono migranti “forzati” che fuggono per ricostruire le loro vite in un paese sicuro; ci sono persone sfollate da conflitti, da catastrofi naturali, da persecuzioni o povertà estrema che cercano di mettersi in salvo; ci sono ancora coloro che sono vittime di tratta e di criminalità...

Imparare a conoscere e a distinguere le situazioni aiuta ad accompagnarli.
Sono situazioni diverse che richiedono attenzioni differenti. Saper mettere in conto gli aspetti economici, sociali, culturali e religiosi è vera accoglienza.

Sicuramente non basta la celebrazione di una giornata per aiutare le comunità a districarsi dentro il fenomeno migratorio cangiante nel tempo e diffuso nel territorio. Purtroppo tra le tante notizie in circolazione, tra i tanti interessi in gioco e le tante preoccupazioni immediate viene a mancare il tempo per guardare fuori dalla finestra e per approfondire.

Basterebbe, per cominciare, visitare le nostre comunità religiose immigrate per iniziare un discorso di sensibilizzazione.

Infine mi assale un dubbio: non c’è il rischio che tutti questi verbi transitivi facciano percepire il residente autoctono come il solo che si deve preoccupare per vedere, ascoltare, accogliere, difendere, accompagnare, sostenere, integrare i migranti di questa o di quella categoria?

Si potrebbe correre il rischio di vedere l’altro come un semplice destinatario piuttosto che un partner. Forse, nel discorso, si dovrebbe sottolineare meglio la reciprocità e la valorizzazione vicendevole. Non sarebbe meglio dire “accoglierci, proteggerci a vicenda, promuoverci reciprocamente, integrarci”? Articolare le differenze è, ormai, un compito ineludibile, fecondo e di lungo impegno da noi e nel mondo sia nel campo religioso che civile.

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