La buona politica è (anche) questione di stile e di parole

di don Marco Cagol, vicario episcopale per i rapporti con le istituzioni
Non è stato un inizio facile, per l’amministrazione Giordani. Complice forse il caldo delle ultime settimane, i toni si sono via via surriscaldati. Segno, evidentemente, che il risultato elettorale è ancora troppo fresco e le divisioni in città ancora troppo marcate. Lo scenario ideale, in sostanza, perché il fuoco che cova sotto la cenere divampi con facilità. Ma una politica che non sappia scegliere con cura le parole, che lascia che vengano inquinate dalla violenza, difficilmente saprà costruire davvero il bene comune.

La buona politica è (anche) questione di stile e di parole

Forse non è del tutto fuori luogo, in questo frangente della vita della città di Padova – che nelle ultime settimane ha registrato episodi di violenza fisica e verbale – richiamare e dare risalto ad alcune parole che il vescovo Claudio Cipolla pronunciò l’8 dicembre scorso, durante la festa della Madonna dei Noli, all’inizio della campagna elettorale per le elezioni amministrative, circa la possibilità di costruire una città pacificata, senza per questo entrare in giudizi di parte.

Diceva il vescovo:

«La costruzione di una comunità pacificata parte anche dall’uso che facciamo delle parole! Da come raccontiamo ciò che accade; da come esprimiamo la nostra diversità di idee politiche; dal credito che diamo alle parole degli altri; dai metodi che usiamo per convincere l’altro delle nostre ragioni; da come cerchiamo il consenso; da quanto le nostre parole sono capaci di esaltare sempre la dignità di ogni persona, e di non offendere, non umiliare, non generalizzare, non giudicare, non discriminare».

E si riferiva allo stile di tutte le nostre parole, «di quelle private e di quelle pubbliche, di quelle dei discorsi tra amici e di quelle dei discorsi politici, di quelle che vogliono convincere e di quelle che vogliono discernere; di quelle che vogliono raccontare il bene fatto e di quelle che vogliono denunciare i mali che ostacolano il bene comune». E concludeva: «Ne diremo tante di parole pubbliche e private sulla nostra città nei mesi che verranno… Che nessuno possa mai sentirsi offeso, o scandalizzato, o umiliato, o stigmatizzato, o odiato, dalle nostre parole».

La parola dell’uomo porta con sé un grande potenziale di violenza o di pacificazione.
Un autore caro ai cristiani (san Giacomo), scrive: «Lo sapete, fratelli miei carissimi: sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all'ira. La lingua è un piccolo membro e può vantarsi di grandi cose. Vedete un piccolo fuoco quale grande foresta può incendiare! È dalla stessa bocca che esce benedizione e maledizione. Non dev'essere così, fratelli miei!».

Sono grandi le sfide della politica, e tutti noi attendiamo sempre che essa produca fatti concreti.
Ma la politica vive anche di parole (da cui i nomi stessi degli organi rappresentativi delle nostre istituzioni pubbliche: “Parlamento” e – indirettamente – “Consiglio”) che permettono appunto il consiglio, il confronto, il dialogo, la trasparenza, la comprensione pubblica delle decisioni e dei fatti: tutte cose che ciascun onesto cittadino, vorrebbe. Ma se le parole si inquinano, e divengono violente, è tutta la politica che diventa violenta, e la pace resta un miraggio lontano.

Lo stile pulito della dialettica politica è un “bene comune”, quasi impalpabile ma vitale come l’aria, che o è custodito da tutti con cura e delicatezza, oppure non esiste per nessuno, perché basta anche che solo uno non lo custodisca che esso sparisce, e la dialettica diventa conflitto violento, che lascia sempre l’amaro in bocca, quando non crea danni peggiori. Forse è proprio ora di farci carico tutti insieme di questo bene comune. Lo dobbiamo alla nostra città e alla nostra dignità di cittadini.

don Marco Cagol,
vicario episcopale per i rapporti con le istituzioni

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