Il Capitolo della Cattedrale: cos'è l'antica istituzione rilanciata dal vescovo

I canonici avevano anticamente la cura d’anime della città, poi prevalse il ruolo di gestione del potere economico e politico, affidato ai cadetti delle famiglie nobili. Rimane la funzione di preghiera e di custodia della tradizione padovana

Il Capitolo della Cattedrale: cos'è l'antica istituzione rilanciata dal vescovo

Nell’ultimo scorcio del 2017 il vescovo Claudio ha nominato undici nuovi canonici, sette effettivi e quattro onorari, del Capitolo della Cattedrale. Un’istituzione così antica e così significativa, ha sottolineato mons. Cipolla su queste colonne, che non si poteva lasciar svuotare poco alla volta. Ma che cos’era e cos’è il Capitolo della Cattedrale? L’abbiamo chiesto proprio a uno dei nuovi canonici, “mons.” Stefano Dal Santo, direttore della Biblioteca Capitolare e docente di Storia della chiesa, che esordisce subito spiegando perché ai canonici padovani è associato questo titolo: «È stato il cardinale Rezzonico, vescovo di Padova nel Settecento e poi pontefice con il nome di Clemente XIII, a ottenere da papa Benedetto XIV che tutti i componenti del Capitolo avessero il titolo più alto che poteva essere concesso dalla Santa Sede, quello di protonotario apostolico, che in diocesi spetta pure agli arcipreti di Cittadella, Montagnana e Thiene».

Ma veniamo al dunque: come è nato il Capitolo?
«Il Capitolo della Cattedrale è l’erede di quel collegio di sacerdoti che curava la pastorale nella chiesa madre; erano anticamente responsabili della cura d’anime per la città di Padova e per tutti i territori circostanti. Facevano vita comune,
anche se in modo diverso nel corso dei secoli, e avevano l’impegno della preghiera comune. I primi documenti che attestano l’esistenza del Capitolo sono del nono-decimo secolo ed è soprattutto in età carolingia che esso assume la sua codificazione. Ma era normale nelle prime comunità cristiane, che per il Nord Italia risalgono a non prima del terzo secolo, che i sacerdoti vivessero riuniti in comunità. Comunità che nascono prima nelle città e poi anche nelle campagne, nelle pievi. La struttura plebaniale era costituita da un gruppo, probabilmente più ristretto, di sacerdoti che vivevano insieme e adempivano il servizio della cura d’anime nelle chiese campestri spostandosi nei villaggi dei dintorni per poi ritornare nella sede comune».

Quindi il Capitolo non era una struttura ecclesiale presente solo nella Cattedrale?
«No, e ne è prova il fatto che, anche dopo l’affermarsi delle parrocchie con un singolo pastore, alcune pievi particolarmente importanti come Piove di Sacco, Monselice, Montagnana, Este e Corte avevano una loro collegiata in cui più sacerdoti facevano vita comune disciplinata da regole, o canones, da cui il nome di “canonico” per il chierico che queste regole era tenuto ad osservare. Il nome di “Capitolo” deriva proprio dal fatto che ogni giorno veniva letto un capitolo di queste regole. I capitoli collegiali sono stati soppressi dalle leggi napoleoniche del 1810 ed è sopravvissuto solo quello della Cattedrale. Ma già da tempo esso aveva perso la sua funzione di cura d’anime».

In che modo?
«Pian piano l’arciprete del Capitolo (cioè il suo presidente), che di per sé era il “parroco” della città di Padova, ministero che avrebbe dovuto svolgere insieme con i canonici, non ha più esercitato direttamente la cura d’anime, delegandola a sei sacerdoti dipendenti dal Capitolo stesso, chiamati mansionari, essendo la sua carica ormai considerata, come quella degli altri canonici, una eminente dignità ecclesiastica, fonte di onori e privilegi ma del tutto priva di qualsiasi carattere pastorale. Il collegio assume via via nel contempo una funzione di fiancheggiamento dell’autorità vescovile. Va detto che il vescovo fino al 13°-14° secolo veniva eletto dallo stesso Capitolo, pur con numerose eccezioni; da Roma gli veniva solo una conferma formale. Dal Trecento in poi il papa si riserva la nomina dei vescovi, per consegnarla in seguito alle mani dei sovrani cattolici. Nel frattempo il collegio dei canonici era diventato proprietario di un cospicuo patrimonio, costituito essenzialmente da grandi possedimenti terrieri, con una complessa struttura di gestione, diventando un’istituzione politicamente ed economicamente rilevante; perciò riuscivano a raggiungere il canonicato solo i membri delle famiglie più eminenti. L’idea secondo la quale il membro cadetto di una famiglia nobile dovesse scegliere la vita religiosa imponeva alla famiglia stessa di trovare sbocchi di qualità adeguata; era ovvio quindi che non diventasse canonico un chierico comune, ma un ecclesiastico di nascita illustre, che otteneva così “voce in capitolo”, come si dice ancora oggi, cioè un posto d’onore e di effettivo peso negli affari e nelle questioni politiche della città e della diocesi».

Il Capitolo era quindi una specie di “senato” vescovile?
«Lo sarebbe stato se proprio il suo grande peso non avesse fatto sì che, per molti secoli, esso sia stato piuttosto un’istituzione concorrenziale all’autorità vescovile. Un istituto che in qualche modo ha cercato di marcare la propria importanza sottraendosi all’autorità del vescovo, che non era membro del Capitolo.
San Gregorio Barbarigo ha avuto coi canonici uno dei fronti di lotta più importanti: l’hanno fatto tribolare perché egli voleva limitarne l’autonomia soprattutto nell’ambito pastorale, sulla scia del concilio di Trento, mentre il Capitolo, forte dei suoi privilegi e della sua influenza politica, resisteva in tutti i modi. Questa situazione termina fra Sette e Ottocento, con la rivoluzione francese e con la fine della chiesa “di antico regime”: il ruolo sociale del sacerdozio muta, i nobili cadetti non fanno più carriera religiosa e il Capitolo diventa un’istituzione meno politica e più interna al mondo ecclesiale, recuperando la sua funzione di senato di collaboratori del vescovo che lo affiancavano, senza oscurarne la dignità, nella conduzione, nel governo del servizio alla diocesi».

Una volta perduta la nomina del vescovo che prerogative erano rimaste al Capitolo?
«Fino al Codice di diritto canonico del 1983 il Capitolo nominava il vicario capitolare, colui che reggeva la diocesi in caso di sede vacante, un compito spesso molto delicato e non privo di insidie: pensiamo a Francesco Scipione Dondi dall’Orologio che resse la diocesi con questo titolo dal 1796 al 1806, in un momento quanto mai turbolento. Oggi la sede vacante è gestita da un amministratore diocesano che, sulla scia del concilio Vaticano II, è nominato dal Collegio dei consultori, espressione del Consiglio presbiterale, considerato “senato del vescovo” in luogo del Capitolo, in quanto rappresentativo del clero locale».

Oggi allora che funzioni rimangono al Capitolo?
«Ne conserva due, importanti. Anzitutto la preghiera per cui, compatibilmente con il servizio richiestogli nella chiesa locale, a ogni canonico titolare è richiesto l’impegno di partecipare in cattedrale alla celebrazione della liturgia delle ore, ed è una preghiera che sale a Dio dalla chiesa madre della diocesi per tutta la chiesa locale. Alla funzione della preghiera si affianca quella di assistere il vescovo nelle celebrazioni più solenni della cattedrale. Potremmo dire che essa ha una triplice dimensione: è anzitutto la chiesa del vescovo; è poi la chiesa del Capitolo; ed è la chiesa della parrocchia di Santa Maria Assunta, guidata da un arciprete, titolo che oggi non spetta più al presidente del Capitolo ma al parroco della chiesa cattedrale, che dev’essere però un canonico. La seconda funzione è quella di custodire la tradizione culturale, la memoria della chiesa locale padovana. Da quando la scelta del vescovo non avviene più all’interno del Capitolo, esso è chiamato a rappresentare la continuità della chiesa locale. Continuità che si esprime anche attraverso la custodia di un patrimonio di beni artistici, di quadri, suppellettili, paramenti (il tesoro della Cattedrale, la pinacoteca dei canonici) e, nel caso di Padova, in particolare di tipo librario, raccolti nella biblioteca Capitolare. La biblioteca è frutto soprattutto del mecenatismo di due vescovi, Jacopo Zeno e Pietro Barozzi, e di alcuni canonici che alla loro morte le hanno donato le loro collezioni».

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