«I giovani italiani? Poco lavoro. Senza qualità e senza diritti»

«Di precariato si muore quando al concetto di società si antepone quello di individuo». Marta Fana, 32 anni, fresca di dottorato di ricerca in economia all’Institut d’études politiques di SciencesPo a Parigi, opinionista di Internazionale e il Fatto Quotidiano, ha “bucato” l’inerzia dell’informazione su giovani e lavoro, sfidando prima il ministro Giuliano Poletti e poi Oscar Farinetti di Eataly. E con il suo ultimo saggio, dal titolo Non è lavoro, è sfruttamento (Laterza) rincara la dose.

«I giovani italiani? Poco lavoro. Senza qualità e senza diritti»

«Di precariato si muore quando al concetto di società si antepone quello di individuo».
Marta Fana, 32 anni, fresca di dottorato di ricerca in economia all’Institut d’études politiques di SciencesPo a Parigi, opinionista di Internazionale e il Fatto Quotidiano, autrice del saggio Non è lavoro, è sfruttamento (Laterza, 192 pagine, 14 euro), ha “bucato” l’inerzia dell’informazione su giovani e lavoro, sfidando prima il ministro Giuliano Poletti e poi Oscar Farinetti di Eataly. E non molla la presa:

«In Italia si è assistito a una grande retorica sui giovani svantaggiati. Peccato che lo siamo per… “sfortuna esogena”: siamo nati fra la metà degli anni ‘70 e ‘90, che non è certo una scelta, e siamo diventati adolescenti e adulti nel periodo di “riforma” a velocità supersonica del mercato del lavoro. Negli ultimi vent’anni l’Italia è passata dal pacchetto Treu al Job’s act, cioè dalla “generazione mille euro” a quella che lavora gratis».

La vera e piena occupazione come miraggio?
«Siamo all’assuefazione nei confronti dell’economia della promessa. C’era il part time involontario o l’apertura della partita iva nella speranza di raggiungere il contratto. Di fatto, oggi ai giovani è riservato un orizzonte di lavoro gratuito per guadagnare l’accesso a un precariato stabile, perenne e senza pensione. Un collasso verso il baratro, ratificato dall’introduzione al Job’s act ma già esplicito nel rapporto Ocse del 1994. È l’assunto che i salari dei dipendenti vanno abbassati per poter mantenere in vita le imprese, e che l’accesso al mercato del lavoro va “regolato” senza più diritti».

Tutta colpa della Grande crisi?
«Attenzione! L’austerità è scattata fin dagli anni ’90. In Italia con la sottrazione del reddito indiretto (da sempre lavoristico), cioè dei servizi a sostegno dei bisogni universali come istruzione e sanità. Tant’è vero che diminuisce, eccome, la spesa sociale mentre la spesa pubblica addirittura aumenta. Il punto vero è che si privatizzano servizi, diritti, opportunità pubbliche e si riduce il numero dei beneficiari. Sintomatico il “welfare aziendale” nel rinnovo dei contratti di secondo livello, perché significa che diventa a discrezione dell’impresa ciò che dovrebbe essere garantito dallo stato o dagli enti locali. Evapora l’accesso a casa, scuola, pensione, asilo nido e si offrono un’assicurazione sanitaria e il fondo d’investimento pensionistico».

E la Pubblica amministrazione?
«Basta guardare i numeri delle domande di terza fascia presentate da laureati, ricercatori, liberi professionisti per insegnare. Quest’anno sono letteralmente esplose, sintomo che non c’è nessuna fiducia nei confronti del sistema produttivo privato, per altro sempre ultimo a livello europeo. Del resto, l’Italia secondo i dati Ocse oscilla appena sul 2,2-2,6 di impiegati pubblici rispetto alla popolazione, quando la media Ue è del 4,3. Ecco, servirebbe proprio un enorme piano di lavoro pubblico: dagli ingegneri ai medici, dagli insegnanti agli informatici. Lo stato dovrebbe imitare Germania, Francia, Usa che investono, come vogliono i liberisti, in “capitale umano” per creare occupazione. E da noi la nuova linfa sono proprio i “bamboccioni” che, guarda caso, si rivelano i più istruiti nella storia d’Italia».

Grandi opere, piccole imprese, lavoro a zero: è un quadro paradossale?
«In Italia non è vero che lo stato si sia ritirato dall’economia. Ha spostato il suo baricentro: grandi defiscalizzazioni e incentivi per tutte le imprese indipendentemente dal settore, dall’attività e da quanto lavoro effettivo creato. Nel 2015, 16 miliardi di euro sono stati un eccezionale afflusso di liquidità di cui hanno beneficiato soprattutto piccole e medie imprese, quelle in cui il Job’s act non influiva dato che l’abolizione dell’articolo 18 non le riguardava. D’altro canto, piuttosto che su ricerca e sviluppo innovativo lo stato si è concentrato sulle Grandi opere, spesso perfino inutili, ma che offrono commesse pubbliche a imprese che di fatto sopravvivono solo grazie ai finanziamenti pubblici. L’altra faccia della medaglia è il precariato con una vera e propria mercificazione del lavoro. Quello in somministrazione: mano d’opera che le agenzie prestano alla Fiat di Cassino come all’aziendina artigianale».

Più in dettaglio cosa significa?

«Che le aziende non assumono più direttamente. È dal 2012 che la legge permette alle agenzie di assumere per alcune mansioni i cosiddetti “svantaggiati” (disoccupati da oltre sei mesi, giovani, invalidi, over 60) ma con un salario ridotto del 20 per cento rispetto al contratto collettivo nazionale. Un grande circolo vizioso, con il risultato che oggi la domanda di lavoro resta la più bassa d’Europa. Quindi, lo stato continua a intervenire pesantemente nell’economia. Ma la tutela dei lavoratori e dei disoccupati si contrae, mentre arrivano più soldi alle imprese».

Infine, la logistica. Che a Nordest si è rivelata tutt’altro che impeccabile: paradigma del “nuovo modello”?
«Settore di avanguardia nello sfruttamento, centrale nel ciclo produttivo, sintetizza bene la valorizzazione del capitale. Nella globalizzazione, si produce da una parte e si consuma dall’altra. Le merci se non vengono trasportate azzerano il loro valore. E proprio a Nordest la logistica ha preso il posto dei vecchi “distretti” che non hanno retto la sfida perché anche finanziariamente non in grado di competere. Così oggi l’Italia è un paese che non produce e non consuma: trasporta e distribuisce la ricchezza altrui. Nel 2015 i nuovi contratti a tempo indeterminato per il 37 per cento si concentravano in logistica, magazzinaggio, turismo e ristorazione, cioè servizi a bassa qualità. Nel caso della logistica, poi, il lavoro ha subìto una segmentazione etnica. E lì dove le condizioni di sfruttamento rasentano la barbarie, si registrano i maggiori conflitti sindacali. Quando i migranti sono esclusi dai diritti di cittadinanza, il lavoro diventa centrale perfino per la sopravvivenza e la dignità economica, sociale, politica».

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