Lo spirito dei bit: Chiesa e comunicazione

Rifiutare di accogliere la dimensione digitale, oggi, equivale a perdere una porzione importante dell’esperienza quotidiana. Prendiamo ad esempio la dimensione personale dei giovani: buona parte di ciò che sono e vogliono raccontare di sé si estende alla reti sociali digitali. Ignorare questa estensione significa perdersi uno spicchio della loro personalità.

Lo spirito dei bit: Chiesa e comunicazione

Alópex kái staphylé è la traslitterazione italiana del titolo La volpe e l’uva, una breve narrazione attribuita allo scrittore greco Esopo.
Il contenuto è noto: una volpe, non riuscendo a raggiungere alcuni grappoli d’uva perché troppo alti, li giudica troppo aspri per far parte del suo pasto.
Un esempio di razionalizzazione, un tentativo di dare una spiegazione accettabile da tutti, anche da se stessi, rispetto a un limite riscontrato nella vita.

Aggiungiamo un esempio concreto per attribuire più spessore alla storia.
Nel 2015 si è tenuto a Firenze il quinto convegno ecclesiale nazionale. Nelle intenzioni degli organizzatori una parte dell’interazione con i temi del convegno avrebbe dovuto transitare via Twitter, ma dei circa 2.500 convegnisti solo una cinquantina si sono affacciati a questo tipo di strumento.
Peccato, perché c’è stata molta vivacità nel commentare le relazioni, offrire il proprio contributo di pensiero, condividere immagini di celebrazione e festa, anche con i molti che seguivano a distanza.

Potremmo affermare, con buona approssimazione, che il 98 per cento dei convegnisti si è perso una dimensione non trascurabile dell’evento.
«Da quanto ho constatato – ha confidato Alberto, un giovane universitario incaricato di aiutare i partecipanti a interagire tramite Twitter – mi è sembrato più un problema di pigrizia che di accesso alla tecnologia. Gran parte, ad esempio, ha utilizzato in maniera molto intensa durante il convegno la messaggistica di Whatsapp per uso personale ma si è rifiutata di scaricare Twitter e di fare lo sforzo di offrire un proprio contributo».

I giovani possono essere un po’ irriverenti ma vanno dritti al problema con molta autenticità; può trattarsi di pigrizia che si trincera dietro le scuse della volpe sopra citata: «Non ho tempo, mi spiace ma ho già troppi canali da seguire, non sono capace, non ne capisco, non sono tecnologica». Però lo sforzo, per ciò che torna a vantaggio personale immediato, si è disposti a farlo.

Rifiutare di accogliere la dimensione digitale, oggi, equivale a perdere una porzione importante dell’esperienza quotidiana. Prendiamo ad esempio la dimensione personale dei giovani: buona parte di ciò che sono e vogliono raccontare di sé si estende alla reti sociali digitali. Ignorare questa estensione significa perdersi uno spicchio della loro personalità.

Possiamo attribuire all’uva tutte le peggiori qualità ma dovremmo anche ammettere con onestà che talvolta non vogliamo fare lo sforzo di raggiungerla.
«La Giornata mondiale per le comunicazioni sociali è irrilevante per le comunità cristiane – mi ha riferito un coordinatore vicariale per la comunicazione – e quando l’argomento del coordinamento vicariale è stata proprio la comunicazione si è verificato il maggior numero di assenze».

Se da un lato è comprensibile che la comunicazione non figuri tra le priorità pastorali, dall’altro ci potremmo chiedere se sia davvero un elemento così trascurabile.

Una buona comunicazione può favorire l’attività di un’unità pastorale, può modificare il risultato di una riunione, di un convegno, può riconciliare contesti ostili, stimolare alla collaborazione, rendere più efficace la catechesi, coinvolgere gli adulti.
Un’omelia ben strutturata crea attenzione, empatia, orienta meglio chi ascolta, una lettura proclamata con un minimo di tecnica favorisce l’accoglienza della Parola.

Il filosofo Paul Ricoeur ha affermato che «i mezzi sono spesso più avanzati della qualità della comunicazione».
Migliorare la qualità della nostra comunicazione sembra un grappolo d’uva raggiungibile.

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