Una non accoglienza. Migrazione, i veri nodi non sono stati toccati. A partire da Dublino

Il Patto Dopo l’accordo di dicembre con i governi, il Parlamento europeo ha approvato dieci testi legislativi su migrazione e l’asilo. Ma non sono vere decisioni

Una non accoglienza. Migrazione, i veri nodi non sono stati toccati. A partire da Dublino

Perché abbiamo così tanti richiedenti asilo che sbarcano sulle nostre coste o arrivano via terra e ai nostri confini in maniera irregolare (che vuol dire senza visto)? Più semplice di quello che immaginiamo. Perché di fatto non esistono canali di ingresso regolare: e quindi l’unica alternativa rimasta (costosa, pericolosa, lunghissima: molti viaggi durano anche più di un anno) è provare ad arrivare irregolarmente, e poi fare richiesta di asilo. Ma sono davvero tutti potenziali candidati all’ottenimento della protezione come rifugiati? No, ovviamente: la maggior parte sono quelli che chiamiamo migranti economici. E perché allora non si dichiarano tali? Ancora più semplice da spiegare: perché non li lasceremmo entrare. Il corto circuito interpretativo, ma anche pratico, è tutto qui. Ed è il segno di un Paese allo sbando, incapace anche solo di comprendere il funzionamento delle sue stesse leggi, e quali sono le sue necessità e i suoi interessi, non diciamo i bisogni altrui. Abbiamo chiuso i canali regolari di ingresso ai lavoratori (ce ne servirebbero 250 mila l’anno solo per colmare la differenza tra chi va in pensione e chi entra nel mercato del lavoro): eppure quelli per lavoro sono, paradossalmente, un numero quasi residuale dei permessi di soggiorno emessi ogni anno. Abbiamo in teoria dei decreti flussi per lavori soprattutto stagionali, in settori che sono in crisi nera per mancanza di manodopera, con attività che hanno il concreto orizzonte di chiudere (dalla ricezione turistica all’agricoltura). Ma non funzionano, tra astrusi click day, e le folli inadempienze proprio del ministero degli Interni, che attraverso le questure dovrebbe dare un permesso di soggiorno in tempi rapidissimi ma spesso finisce per dare il primo appuntamento all’immigrato a ridosso della conclusione del periodo previsto (e poi ci si domanda chi crea l’irregolarità: proprio chi, giustamente, la pretende).

Cosa bisognerebbe fare, invece? La prima cosa: aprire canali regolari di ingresso, gestiti da accordi tra Stati (da quando si è smesso di farlo, li gestiscono – irregolarmente, come ovvio – i trafficanti). Se lo si facesse, già il numero di richiedenti asilo si sgonfierebbe enormemente. Ma bisognerebbe comunque occuparsene. E poi, naturalmente, fare il proprio dovere nell’integrare i propri nuovi cittadini: dall’insegnamento dell’italiano nei centri di accoglienza (i cui costi non vengono più rimborsati per decisione dell’attuale ministero dell’Interno: lo stesso che pretende, giustamente, che gli immigrati si integrino) al conferimento della cittadinanza alle seconde generazioni. Se nel caso dei corsi di lingua siamo probabilmente l’unico Paese in Europa ad avere questa assurda posizione, nel caso della cittadinanza siamo diventati uno di quelli con la legislazione più restrittiva. Ecco, la stessa logica riguarda il Patto europeo sulle migrazioni e l’asilo, approvato mercoledì 10 aprile dal Parlamento europeo. Non è un compromesso, che sarebbe comprensibile, essendoci in Europa posizioni diverse. È una non scelta, che serve essenzialmente agli uni e agli altri per potersi presentare alle elezioni europee dicendo che si è fatto qualcosa. I veri nodi non si sono voluti toccare: a partire da quei regolamenti di Dublino – che prevedono che del richiedente asilo si faccia carico il Paese di primo approdo – sottoscritti all’epoca, per l’Italia, da un governo di centrodestra, e rinnovati da uno di centrosinistra, tanto per chiarire che nessuno è incolpevole. Oggi, anzi, con il nuovo patto, il ruolo dei Paesi frontalieri, come l’Italia, è addirittura rafforzato. Poiché i migranti – ovunque arrivino, via mare o via terra, attraverso il mar Mediterraneo o i Balcani – cercano di entrare in Europa, e raramente vogliono fermarsi nel Paese che casualmente si trova alle frontiere esterne dell’Unione, la questione dovrebbe essere gestita centralmente dall’Unione Europea stessa – accogliendo, redistribuendo, integrando, se del caso respingendo. Ma gli stessi che si lamentano del mancato ruolo dell’Europa, rifiutano di darle le competenze necessarie, tenendole strettamente nelle mani degli stati nazionali. Abbiamo, sì, un inizio di principio di redistribuzione obbligatoria: ma chi non vorrà accogliere nessuno potrà monetizzare il suo rifiuto, senza alcuna certezza che poi paghi davvero. Ci sono procedure più veloci ma anche più sommarie e discutibili, basate sul Paese di provenienza più che su ciò che vive la singola persona: e quindi con minor attenzione ai diritti delle persone. Infine, si è dato il solito messaggio politico di cui molti porteranno a lungo la responsabilità morale: gli immigrati sono un problema anziché un pezzo di una soluzione a un problema, un nemico e non un partner. Immaginiamo lo dicessero dei nostri emigranti di oggi. Insomma, non un granché di cui essere soddisfatti.

Stefano Allievi
Professore di Sociologia all’Università di Padova

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