Più vecchi, più soli, con meno famiglia

In Veneto c’è una nuova fascia di popolazione di età compresa tra i 60 e i 90 anni; un fatto inedito che pone problemi anche alla medicina tradizionale. Le risposte più interessanti arrivano dagli ambiti in cui si è mantenuto vivo il senso della “ruralità”. Intervista a Giovannella Baggio, primario di medicina generale all'ospedale di Padova.

Più vecchi, più soli, con meno famiglia

È stata il primo primario italiano di medicina interna, una disciplina da sempre (ancora oggi?) feudo dei maschi. Giovannella Baggio attualmente è a capo di medicina generale all’ospedale di Padova. «Come stanno invecchiando i veneti? Il dato più significativo è proprio che stanno invecchiando, più o meno nella media degli altri posti, comunque l’età di vita si è sensibilmente innalzata. Quando ho cominciato a frequentare le corsie ospedaliere un sessantenne era anziano, oggi lo consideriamo un letto pediatrico».

Addirittura?
«Lo chiamiamo proprio così. Basta fare un giro in reparto: siamo pieni di ottantenni, novantenni, i centenari sono diffusi. Non siamo ancora ai livelli del Giappone, ma la media di vita è notevolmente aumentata».
Per tutti?
«Soprattutto per le donne: in media cinque anni in più degli uomini. Di fatto ora ci troviamo con una nuova fascia in più di popolazione, quella tra i 60 e i 90, non è una questione di poco conto. C’è più vita».
Buona?
«Questo è un altro problema che sposta le considerazioni dall’ambito quantitativo a quello più qualitativo. Ce lo chiediamo spesso anche noi: è giusto, ma è nello stesso tempo bene, nel senso della vita che si ha a disposizione?».
Una tentativo di risposta?
«Non può essere univoco. Diciamo che dipende da come si invecchia».
Nella media?
«Impossibile dirlo, possiamo solo individuare quali sono i fattori che determinano un’anzianità positiva, che può essere vissuta come una fase dell’esistenza che non crea sofferenza, disagio, dolore, come invece spesso accade».

Restiamo sulle condizioni per questa vecchiaia buona…
«Sono sostanzialmente due: la prima legata alla genetica, alle caratteristiche “naturali” di ogni persona; poi vi sono le situazioni che in maniera più ampia potremmo definire ambientali».
Sulla prima non possiamo interferire…
«Per il momento, anche se la medicina in proposito sta facendo passi enormi. Su tutto il resto invece l’intervento discrezionale, ma potremmo dire sociale, è ampio e spesso determinante».
Ambientale, come accennato, è un termine onnicomprensivo; nello specifico a che cosa ci si deve riferire?
«A come uno ha condotto la propria esistenza, agli stili di vita, ad esempio. Potrà sembrare strano, magari detto da un medico, ma personalmente sono convinta che gli aspetti culturali, perfino la scolarizzazione, siano elementi decisivi nell’influenzare la tarda età. È chiaro che il livello di istruzione da solo non basta, ma può significare molto; più ampiamente potremmo dire che contano molto le condizioni culturali nelle quali si invecchia. Comunque ne sono certa: più si è attrezzati, anche dal punto di vista del sapere e più si ha la possibilità di prolungare gli anni di permanenza sulla terra».

Allora torniamo al Veneto: qui si vive bene?
«In parte. Vi sono alcune condizioni che certamente giocano a nostro favore. È vero, ad esempio, che il fatto di non vivere in un contesto di grandi città, di metropoli, ci aiuta, rende la convivenza più umana. Ma non è abbastanza, anche se osservo che dal mio punto di vista la ruralità è un grande valore».

Ruralità? Parola un po’ desueta...
«Basta capirci. Lo ammetto: non amo molto l’anonima vita cittadina, anche se è quella che pratico da decenni; trovo che l’esistenza di molte piccole realtà locali legate ancora a una dimensione di convivenza che appunto definisco rurale sia ottimale, pure per diventare vecchi».

Il cuore di questa tipologia esistenziale?
«La famiglia, non vi è dubbio. D’altra parte basta stare un po’ tra di noi, in ospedale, per capire quali sono le dinamiche che vivono tanti anziani. La prima cosa che chiedono i parenti, anche i figli, quando ricoverano il padre o la madre è sempre la stessa: “Che cosa succederà dopo? Non posso portarmelo a casa”. Il timore di un anziano che si avvii verso una situazione di non autosufficienza è angosciante. Magari i figli sono lontani, sparpagliati, hanno altro a cui badare, non hanno margini per occuparsi dei loro vecchi».

Le conseguenze?
«La malattia più terribile che può colpire un vecchio oggi, sempre più, è la solitudine vissuta come abbandono. Questo non accadeva in altri contesti, come appunto quello rurale a cui facevo riferimento prima. Ripeto spesso a figli e parenti che la medicina più importante ed efficace per il loro caro anziano e malato sono proprio loro, la presenza e la cura delle persone care. Se manca questo crolla tutto».

Questa è una situazione irreversibile, non è pensabile di ritornare a modelli sociali e familiari ormai superati…
«Vero, per questo dobbiamo organizzarci».

C’è sempre il servizio sanitario…
«Teoricamente, nella pratica siamo molto lontani da una situazione ottimale».

Il Veneto si vanta di avere un sistema efficace, adeguato, che funziona. Non è proprio così?
«Solo in parte. Dal punto di vista dell’impostazione siamo competenti, capaci, attrezzati, abbiamo le idee chiare, sappiamo bene cosa fare; la pratica e l’esistente sono diversi; stiamo continuamente rincorrendo una situazione ottimale, che conosciamo ma non abbiamo ancora reso concreta».

Vuol dire, ad esempio, che la medicina territoriale non funziona? Che il tanto proclamato legame tra socio e sanitario è solo una dichiarazione di principio?
«In buona misura. E non stiamo certo migliorando: ora abbiamo un problema molto serio di risorse; non investiamo abbastanza in questi aspetti. Non basta certo garantire agli anziani un bagno settimanale o un pasto caldo per aver risolto i problemi. Mi rendo conto che non si tratta di risolvere problemi semplici, che tutto questo non è certo indolore sul piano economico e dei bilanci. Di fatto non stiamo andando avanti, siamo continuamente sul piano dell’emergenza. Altre regioni, penso all’Emilia o alla Toscana, sono più solide in questi progetti. È vero: il Veneto è virtuoso, pure sul piano delle spese, ma non altrettanto bravo negli interventi».

Eppure il piano socio-sanitario è pieno di buoni propositi.
«Che sono tali. Forse bisognerebbe avere più coraggio, riformare sul serio; ad esempio in merito ai piccoli ospedali vanno compiute scelte chiare, anche se magari impopolari».

Chiuderli?
«Alcuni di sicuro; se questa poi è la condizione per sviluppare la sanità territoriale, non ho dubbi sull’esigenza di procedere in tale direzione».

Molti anziani da soli, anche per questa carenza di sostegno, non ce la fanno, non rimangono che le case di riposo…
«Non ho una grande opinione di queste strutture; molte non sono gestite in maniera inadeguata; naturalmente sto parlando mettendomi dalla parte degli anziani. Purtroppo in ospedale siamo spesso costretti a verificare come arrivano gli ospiti di queste case: le condizioni talora sono pessime. La sofferenza della vecchiaia tra l’altro è una situazione che tocca soprattutto le donne».

Forse perché vivono di più?
«Questo è vero, ma non è tutto. È chiaro che più si va avanti con l’età e maggiori sono le criticità, ma è altrettanto evidente che stiamo pagando le carenze sul versante della cosiddetta medicina di genere».

Che vuol dire?
«Molto semplicemente che fino ad oggi il paziente di riferimento per la ricerca, ma anche per la cura, è sempre stato il maschio; non ci siamo resi conto che la donna è diversa e come tale andava studiata e anche tutelata dal punto di vista della salute».

Oggi la situazione è mutata…
«Lasciamo perdere… In questo ambito c’è ancora molta strada da fare, anche se la spinta dal basso, da gruppi, da associazioni, ultimamente è assai più vivace. Comunque le donne sono il segmento più problematico nell’ambito dell’allungamento della vita. Resistono di più, ma proprio gli ultimi anni sono quelli più difficili».

Comunque la medicina è un ambito in cui la scienza sta facendo passi da gigante; una prospettiva incoraggiante?
«Questo è vero, anche se è indubbio che i maggiori progressi sono sul versante della ricerca medica “pura”, meno su quello della cura».

Le cose potrebbero cambiare anche a Padova, magari con il nuovo ospedale…
«Ne abbiamo bisogno. Lo costruiscano dove vogliono, purché lo facciano. E presto».

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