In un libro tre secoli di storia organaria in diocesi di Padova

Alberto Sabatini pubblica il suo studio sulla diocesi di Padova. La ricerca racconta le varie epoche organarie attraverso le opere dei maestri che hanno lavorato e lavorano nelle chiese parrocchiali e non delle nostre comunità ecclesiali.

In un libro tre secoli di storia organaria in diocesi di Padova

Si apre con una dedica al vescovo mons. Claudio Cipolla la nuova, complessa fatica di Alberto Sabatini, organista titolare della basilica del Santo, organologo e studioso d’arte organaria a livello nazionale, che ha racchiuso in un unico volume la descrizione storica del patrimonio organistico padovano.
In Organi e organari nel Veneto tra XVIII e XXI secolo. La grande diocesi di Padova (edizioni Grafiche Turato, pp 228, euro 45,00) Sabatini parla di tutti i 420 strumenti esistenti nelle varie chiese, parrocchiali e non, del vasto territorio diocesano.
Il libro tratta ogni singolo organaro che ha lasciato traccia del suo operato, in grandi capitoli suddivisi per secoli, dai più antichi manufatti del leggendario don Pietro Nacchini (sacerdote di origini dalmatine, poi naturalizzato veneziano) ai più moderni “orfei” degli attrezzatissimi opifici delle famiglie Mascioni, Tamburini e Ruffatti.
Vengono anche citati giovani promettenti organari autoctoni come Luigi Patella e Alessio Lucato, titolari di ditte uninominali, che, quasi a reviviscenza di una inveterata tradizione tutta veneta, assai gloriosa nei secoli passati e pregna di quegli antichi odori di bottega sovente andati perduti, negli ultimi tempi hanno restaurato organi antichi ed eretto strumenti nuovi «con il piglio e la determinazione – dichiara l’autore – dei più provetti e talentuosi artigiani del settore».

La ricerca descrive puntigliosamente tutti i 420 organi, di cui un’ottantina “secolari”, censiti nella diocesi di Padova, un territorio ricco di cultura e tradizioni religiose tra cui eccelle l’arte organaria, viva dal 13° secolo a oggi.
Un patrimonio consistente per numero e per tipologia, anche se sono pochi gli organi antichi giunti fino a noi pressoché intatti, poiché nella maggioranza dei casi mostrano i segni di una vissuta sequenza di stratificazioni.
«I numeri – sottolinea Sabatini – sono abbastanza eloquenti nel definire quale cospicuo patrimonio organario possegga l’immensa diocesi di Padova, a differenza delle altre circoscrizioni vescovili contermini. Proprio per questo motivo è difficile, sia per la diocesi, sia per le singole comunità, poter garantire una piena funzionalità e una perfetta conservazione di tutti i manufatti. V’è da sottolineare, tuttavia, complice anche la rinata attenzione e sensibilità verso questo tipo di strumenti musicali, che una comunità, quando è informata della preziosità dell’organo che è custodito nel relativo luogo di culto, ne diviene gelosa e orgogliosa custode».

Che lavoro sta svolgendo in questo settore la commissione diocesana?
«Ha intrapreso un graduale e significativo cammino di rivalutazione e ripristino degli strumenti più antichi e, nonostante la crisi economica che aggrava i nostri giorni, sono stati raggiunti obiettivi degni di nota: basti pensare – solo per citare gli ultimi restauri – che hanno riacquistato vita importanti organi storici, come quello della parrocchiale di Montegaldella (opera del 1896 della famiglia Zordan) e della parrocchiale di San Daniele in Padova (opera della famiglia Pugina, anno 1894). Tuttavia resta ancora molto, anzi moltissimo da fare: numerosi strumenti di innegabile valore storico-artistico attendono da molti lustri un efficace e quanto mai auspicabile restauro filologico; tra questi mi è caro citare, per la città, gli organi collocati nelle chiese di San Giovanni decollato (opera del 1795 di Francesco Dacci junior) e di San Pietro (opera di Giacomo Bazzani, eseguita nel 1834), entrambe suffraganee della Cattedrale. In provincia, meriterebbe un deciso ripristino, volto al recupero delle sonorità originali, l’organo della chiesa di Villa Estense: un manufatto interessantissimo, costruito nel 1758 per la vicina chiesa di Santa Colomba e trasferito nel 1825 nella nuova parrocchiale, realizzato dal leggendario don Pietro Nacchini con la collaborazione del suo migliore allievo, Francesco Dacci senior».

Tanti organi da salvaguardare. Tanto è anche andato perduto...
«Purtroppo molti organi sono andati irrimediabilmente perduti, sia per l’incuria umana, sia per le soppressioni napoleoniche, sia per le pesanti innovazioni dell’epoca neoclassica: infatti, la scuola organaria veneziana, quando fu chiamata a intervenire (tra Sette e l’Ottocento) su molti organi esistenti a Padova, eliminò completamente i manufatti del precedente periodo. Come in tutto il Veneto, quasi nessun organo in stile rinascimentale o barocco si salvò dalle radicali innovazioni imposte dal neoclassicismo: le artistiche casse decorative del Cinque-Seicento, con i loro prospetti ornamentali scanditi da più campate contigue di canne (spesso ritmate nella loro intangibile monumentalità dai cosiddetti “organetti morti”), vennero rimpiazzate da nuovi buffet, in stile severo, muniti di un unico fornice».

Quali sono, a suo parere, gli strumenti padovani che si distinguono per originalità?

«L’organo più singolare, di recentissima realizzazione, è quello dell’arcipretale di Montegalda: si tratta di uno strumento molto corposo (58 registri, oltre 2.500 canne), a tre manuali con trasmissione elettrica, realizzato dalla ditta Lucato; anche se non è racchiuso in una cassa armonica particolarmente preziosa o antica, lo caratterizza un’interessantissima struttura di impostazione francese romantica ed è composto da numerosi registri del tutto inusuali per l’Italia. Le casse armoniche più singolari poi, di pretta impostazione barocca, sono senza dubbio quelle che racchiudono gli organi nella grande abbazia benedettina di Santa Giustina; anche la cassa armonica dell’organo di Saonara ha un considerevole valore: custodisce lo strumento originariamente costruito da don Pietro Nacchini nel 1763 per la chiesa di Sant’Agostino a Padova che venne trasferito a Saonara sullo scadere del 18° secolo a seguito delle depredazioni perpetrate dalla soldataglia francese».

Lei parla di strumenti barocchi, neoclassici, romantici, ceciliani… In che modo il patrimonio organario si è “evoluto”?
«Sicuramente il nostro amato strumento musicale ha vissuto una discreta sequenza di evoluzioni storiche. Nel primo rinascimento, quando la polifonia italiana si trastullava con l’intreccio strumentale e vocale, portato a un alto livello di perfezione tecnica da maestri fiamminghi e francesi, l’organo visse il suo periodo più puro (composizione fonica molto contenuta, limitatezza dell’estensione dell’unica tastiera, pedaliera non sempre presente): avulso da ogni forma d’emulazione timbrica, archetipo della sintesi strumentistica, divenne vessillo della fusione armonica grazie alla sua voce argentina, angelica e incorporea.
Il barocco, per incrementare le potenzialità espressive, grazie ad alcuni organari d’oltralpe lo arricchì di nuove sonorità: oltre al Ripieno (tipica voce dell’organo a canne), si aggiunse una nuova tavolozza di timbri più sgargianti: il Cornetto (dalla voce tonitruante e ricca di armonici) e le “ance” (Trombe, Clarini, Fagotti). Ma quest’evoluzione si accompagnò alla creazione di nuovi effetti timbrici e acustici che defluirono in orpelli tesi a imitare le voci e i sussurri della natura; fu così inibito il fascino ieratico dell’organo e offuscando il ruolo liturgico.
Il neoclassicismo ridimensionò gli eccessi precedenti plasmando, soprattutto in Veneto, una castigata tavolozza timbrica e sonora, sapiente stilizzazione sintetica delle sonorità passate.
Alla serafica compostezza del Settecento, il romanticismo rispose con la banalizzazione strumentale e l’esasperazione della timbrica, fino al parossismo fonico: così, il “re degli strumenti” fu dotato di registri talvolta leziosi e bizzarri per soddisfare il protagonismo di organisti che, per conquistare il pubblico con effetti plateali e orecchiabili, troppo frequentemente eseguivano arie ballabili e cabalette civettuole tratte dalla letteratura melodrammatica coeva».

Qui si colloca la “riforma ceciliana”...
«Nata per arginare le emorragie del buon gusto e del buon senso del romanticismo, spesso però la cura fu più deleteria della patologia perché, innumerevoli capolavori vennero smantellati. Nei casi più fortunati, dopo averne spento i registri più antichi, manufatti di indubbio valore vennero “ridotti alla moderna” come si usava proclamare nei contratti di appalto, modificando la trasmissione e introducendo registri a diametro stretto. Gli organi furono trasformati in un giardino fiorito di… Viole, Violette, Violoni e Viole da gamba di scadente fattura e grottesca intonazione. Ma, per fortuna, non tutti i frutti di quel periodo risultarono avvelenati: l’organo sinfonico, germinato negli atelier di perspicaci organari francesi dell’Ottocento e poi di acutissimi costruttori anglosassoni, rappresentò la rinascita dell’organaria italiana, da troppi lustri assopitasi in un tradizionalismo stantio e ottuso. I nuovi organi ispirati alla scuola inglese, in stile severamente liturgico, furono caratterizzati da foniche sostanziose, intonati in modo “parlante”, alimentati da pressioni generose e capaci di rendere anche le più piccole sfumature dinamiche grazie a casse espressive efficaci».

E oggi?
«Finalmente, con il risveglio della sensibilità verso l’organo, si avverte la necessità di riconsegnare a questo sovrano, spodestato ed esiliato, la propria luminosa, fulgida e brillante corona, riconoscendogli, in una sorta di reviviscenza dell’antico splendore, il suo più originale e autorevole ruolo di “re degli strumenti”».

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