Ancora scissione. Torna il demone della Sinistra

È durato dieci anni il sogno di creare una grande forza riformista unitaria di centrosinistra. Il Partito Democratico, nato nel 2007 come prosecuzione naturale dell’Ulivo, ha subito domenica scorsa quella che sembra a tutti gli effetti una dolorosa scissione a sinistra. L’ennesima nella storia politica della sinistra italiana, ma questa volta legata a divergenze personali e di potere più che sui programmi e le visioni politiche. Una separazione che apre interrogativi notevoli. Che ne sarà del governo Gentiloni? Chi si terrà l’enorme patrimonio immobiliare dell’ex Pci? Quanto varrà il Pd assieme alla sinistra post-scissione?

Ancora scissione. Torna il demone della Sinistra

È durato dieci anni il sogno di creare una grande forza riformista unitaria di centrosinistra.
Il Partito Democratico, nato nel 2007 come prosecuzione naturale dell’Ulivo, ha subito domenica scorsa quella che sembra a tutti gli effetti una dolorosa scissione a sinistra.
L’ennesima nella storia politica della sinistra italiana, ma questa volta legata a divergenze personali e di potere più che sui programmi e le visioni politiche.

Da un lato il segretario uscente Renzi e dall’altro la vecchia ditta ex Pci-Pds-Ds legata a Pierluigi Bersani e a Massimo D’Alema.
Al piano interrato del Grand hotel Parco dei Principi dov’è si è svolta l’Assemblea nazionale del Pd le fazioni in campo hanno provato a sfidarsi con giochi di rimpiattino su regole congressuali e finte aperture: gli scissionisti (Speranza per conto di Pierluigi Bersani, il governatore pugliese Emiliano e quello toscano Rossi) che chiedevano improbabili rinvii del congresso, i renziani fermi nel ribadire il rispetto assoluto dei termini temporali nella cronologia del congresso scaturiti dopo le dimissioni del segretario Renzi, le mediazioni dei vari Veltroni (poche truppe ma ancora molta presa mediatica), le trattative del potente ministro Orlando su improbabili candidature unitarie.

Ma niente, la scissione tra la minoranza della sinistra interna e il Pdr – il Partito di Renzi – si era ormai innescata inesorabile già molti mesi fa.
La minoranza di fatto voleva una e una sola cosa, che di certo non era il rinvio del congresso. Voleva la promessa di Renzi di non ricandidarsi alla segreteria e dunque alla conseguente leadership di Palazzo Chigi.
Il vecchio apparato di potere bersanian-d’alemiano non poteva più condividere lo stesso partito di Matteo Renzi: la leadership renziana – molto, e a volte inutilmente divisiva, va detto – non è mai stata riconosciuta come tale e l’ex premier è sempre stato vissuto come un usurpatore di un “giocattolo” non suo, mentre una classe dirigente, quella post-Pci, si è trovata via via spodestata dal renzismo e dai suoi metodi cesaristici.

Ma anche in nome di un ipotetico bene supremo di partito, come poteva Renzi accettare una simile clausola capestro: non candidarsi per salvaguardare l’unità del partito e farsi “temporaneamente” da parte? Davvero troppo, di fatto una richiesta utile per farsi chiudere la porta in faccia e procedere con la scissione. E perché mai un leader che ha perso, poi vinto le primarie, ha guidato il Pd da Palazzo Chigi dovrebbe farsi da parte a poco più di 40 anni?

Alla fine il Pd – e va detto anche per evidenti colpe politiche di Renzi – si è lacerato fino a rompersi.
Ma quante volte nel dopoguerra il campo della sinistra si è spaccato in più faglie? E soprattutto quante “fortune” portano le scissioni a sinistra?
Riprendendo l’analisi di Paolo Mieli post-Assemblea nazionale: «la scissione non premia personalmente gli scissionisti, neanche a medio termine. Per quello che riguarda gli individui, queste traumatiche separazioni quasi mai hanno fatto risplendere l’astro di coloro che se ne sono andati, semmai hanno consentito l’ingresso sulla scena di figure fino a quel momento considerate secondarie. Unica eccezione, quella di Giuseppe Saragat nel ’47» (Corriere della Sera, 19 febbraio).

La scissione è stata per una parte anche l’unica via di uscita per trovare uno spazio vitale
Massimo D’Alema, che quanto ad astuzia e spericolatezza politica non ha eguali, sapeva benissimo che al prossimo “giro” parlamentare per i “suoi” non ci sarebbe stato nemmeno un seggio, cannibalizzati in toto dalle liste con i bersaniani, e quindi esodati per sempre dalla scena politica.

Giochi di potere d’alemian-renziani a parte, cosa ha infranto il sogno di Prodi, Andreatta, Mattarella e Parisi di fare la socialdemocrazia in Italia con l’Ulivo prima e il Pd poi?
I cattolici democratici di sinistra in questa fase hanno giocato lealmente per l’unità (Franceschini, Delrio, Fioroni, Prodi e anche Letta), pertanto questa ennesima scissione a sinistra è da imputare in larga parte agli eredi di Botteghe Oscure, che hanno lasciato il Pd più per una questione di potere e di posti piuttosto che per questioni politiche (se lo avessero fatto sul Jobs Act o sulle alleanze forse avrebbero reso più fascinoso l’addio).

Adesso Speranza, D’Alema, Bersani assieme forse a Pisapia e a Sinistra Italiana di Fassina e Fratoianni proveranno una nuova via socialista a sinistra del Pd.
Con interrogativi notevoli, meno importanti dal punto di vista storico ma più prosaici. Che ne sarà del governo Gentiloni? Chi si terrà l’enorme patrimonio immobiliare dell’ex Pci?
Quanto varrà il Pd assieme alla sinistra post-scissione? Il 30 per cento più il 5/10 per cento, o il 25 per cento totale come somma di Pd+Sinistra?
E ancora più prosaicamente: la leadership di Renzi nel Pd ora è inscalfibile, o il potere vero sarà suddiviso con le truppe di Franceschini, Orlando, Martina, Orfini e De Luca? Domande che forse impegneranno i vertici del Pd, ma che rischiano di lasciare gli italiani, alle prese con ben altri problemi, totalmente indifferenti.

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