Il vuoto umano da debellare. Il dibattito dopo la nota dei vescovi del Triveneto sul suicidio assistito

Suicidio assistito Dopo la nota dei vescovi del Triveneto, il dibattito è aperto. L’esperienza di Giovanni Poles dell’Ulss 3 nella gestione del dolore

Il vuoto umano da debellare. Il dibattito dopo la nota dei vescovi del Triveneto sul suicidio assistito

Fare tutto il possibile, anche più di quanto si faccia oggi, affinché i malati e i loro familiari non si sentano soli. Questa è la risposta più efficace che sanità, società civile e comunità ecclesiale possono dare alla domanda di suicidio assistito: «Perché spesso questa domanda ne copre un’altra più vera e sentita, un bisogno che non trova comprensione né accoglienza. Ciò che è davvero importante è che le persone si sentano accompagnate fino alla fine, cioè che siano parte di un percorso in cui non si sentano sole. Questo è un “viaggio” che deve essere compiuto insieme, prima di fare qualsiasi altra considerazione». Lo sottolinea Giovanni Poles, direttore dell’Unità operativa complessa Cure palliative dell’Ulss 3 Serenissima.

Le sofferenze che il malato reputa non tollerabili lo sono davvero oppure ci sono strumenti, farmaci, accortezze che consentano di moderare il soffrire – sia fisico che psicologico – rendendo non solo sopportabile ma anche dignitoso l’ultimo tempo di vita?

«Per la sofferenza intesa in senso strettamente fisico, per sintomi importanti del fine vita come dolore o mancanza di respiro, le cure palliative dimostrano già da tempo che questi sintomi possono essere gestiti molto bene, alleviandoli, fino agli ultimi momenti. Se una persona arriva alla fine con sofferenze fisiche importanti non si può dire che non ci fosse nulla da fare: semmai ci sarà da dire che, nella maggior parte dei casi, quella persona è stata curata e seguita male».

Però non c’è solo il dolore fisico...

«Infatti: la definizione di malattia, data ormai parecchi anni fa dall’Organizzazione mondiale della sanità, va ben oltre gli aspetti puramente fisici, coinvolgendo quelli psicologici e l’orizzonte relazionale ed esistenziale. In effetti, quante volte di fronte alla propria sofferenza uno è davvero libero e non condizionato?

Una persona può essere talmente depressa da ritenere che la propria condizione di vita non sia più sopportabile. È così?

«Una mattina un anziano signore ricoverato, che aveva una prognosi a due-tre mesi per un tumore ed era ben gestito dal punto di vista dei sintomi, mi dice che non ce la fa più, che ha un sacco di dolori e che vuole farla finita. Ma come? Se fino al giorno prima non c’erano problemi insormontabili, come mai la mattina dopo ci sono questi dolori insopportabili? Perciò con la mia équipe iniziamo a indagare. Non colgo aggravamenti importanti dal punto di vista fisico né altri sintomi disturbanti. Però è vero: è un uomo prostrato. Arriva la psicologa e con lei continuiamo a ricercare. Vien fuori che questo signore non vede i figli da una settimana, non per loro cattiva volontà ma per motivi di lavoro che li trattengono distante. Così l’anziano si sente abbandonato. Per cui sorge un disagio forte e la richiesta esplicita di poter chiudere la propria vita. Ricucito il tutto rapidamente, contattati i figli che arrivano subito, la domanda di farla finita cade. Dopo qualche tempo quel signore muore serenamente, accompagnato dagli affetti e da tutta la terapia che doveva essere fatta. Che ciò che è importante è il fatto che le persone si sentano accompagnate, cioè parte di un percorso in cui non si sentano sole. In tanti anni di cure palliative e in tanti episodi che abbiamo risolto in modo sereno, mi sono accorto di quante volte in certe domande ci sia più una richiesta di aiuto piuttosto che un vero desiderio di mettere fine alla propria vita. Sarebbe ipocrita che non fossimo attenti e non leggessimo bene questa richiesta di aiuto. E questo è un iter che deve essere compiuto, prima di fare qualsiasi altra considerazione».

Non tutte le malattie sono uguali, l’esempio della Sla

Non tutte le malattie, però, sono uguali. E ce ne sono alcune che, più di altre, portano con sé un carico di sofferenza tale da indurre ai pensieri più cupi. La Sla è una di queste: «Ha un percorso di malattia diverso da quello del malato oncologico – sottolinea Giovanni Poles – mette in grave difficoltà sia l’ammalato che la sua famiglia, perché comporta un carico molto importante sia assistenziale che psicologico. Dal punto di vista dei sintomi la preoccupazione maggiore è di avere complicanze respiratorie, di sentirsi soffocare; ma anche questi sintomi, se gestiti opportunamente, si possono controllare. Il concetto di sofferenza e stanchezza esistenziale è molto più forte e complesso. E non si parla solo di fine vita, ma anche di pazienti che hanno una prognosi di un anno, un anno e mezzo. La sanità e la società civile devono fare di tutto, al meglio e al massimo».

Giorgio Malavasi

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