Anna Renzi. Una vita in cordata: la montagna insegna

Anna Renzi, ottantotto anni, nonna di due nipoti, ha scalato il Monte Bianco, il Monte Rosa, il Cervino, ma anche una cima da seimila metri in Perù. L’ultima ferrata otto anni fa sulle Tofane. «Ho l’impressione che noi donne reagiamo meglio al cosiddetto mal di montagna»

Anna Renzi. Una vita in cordata: la montagna insegna

Quando si dice che i nonni vanno ascoltati perché hanno più esperienza, di solito non si intende che abbiano scalato il Kilimangiaro. Invece… Di “solito”, in effetti, Anna Renzi non ha proprio niente. Ottantotto anni, la maggior parte dei quali passati a Padova, dove arrivò dopo il liceo scientifico, nonna di due nipoti di 24 e 26 anni. Un concentrato di energia in un fisico minuto. Delle sue origini toscane, conserva il piglio energico e una leggerissima, garbata inflessione. L’ultima ferrata l’ha fatta otto anni fa, sulle Tofane. Ospite del Civitas Vitae - Oic di via Nazareth, l’unica cosa di cui si rammarica è di non trovare nessuno che l’accompagni nelle sue lunghe camminate quotidiane. Se ne stupisce, perché non si rende conto di essere un caso piuttosto anomalo. «Macché. È che loro sono sempre andati in macchina e io a piedi. Gli dico: guardate che camminando si riattiva la circolazione. Ma niente da fare. Ma non mi scoraggio. Prendo e vado, se il tempo è buono. Se no, prendo l’ombrello».

Come nacque la passione per la montagna?
«Da noi c’erano gli Appennini. Guardavo il Pratomagno, 1.600 metri. Mi sembrava bellissimo, però non conoscevo ancora le montagne vere e proprie. A 17 anni decisi di fare una vacanza in Austria, per perfezionare la lingua tedesca. Superata Verona, il paesaggio cambiò e vidi questi “paretoni” di rocce… Rimasi sbalordita, aggrappata al finestrino per tutto il viaggio. Credevo di sognare. Da lì nacque questo amore. In Austria feci le prime belle camminate, poi ritornata in Italia, mio padre fu trasferito a Padova e per prima cosa mi iscrissi al Club Alpino italiano. Partecipai all’ultima gita della stagione. Avevo vent’anni. Eravamo un gruppo di 21 persone. Tutto era nuovo per me. Arrivammo al lago di Santa Croce. La meta era il monte Teverone. Incontrammo delle difficoltà impreviste. Salti di roccia continui. Per fortuna avevamo due corde. Ci legavano a due a due. Come casco usavamo lo zaino. Sperando… Naturalmente 21 persone, con due sole corde, ci vuol tempo. Venne il buio. Passammo la notte lì e quando cominciò ad albeggiare continuammo fino a Cellino di Claut, in Valcellina». E nel frattempo, le vostre le famiglie? «Si immagini! Il Cai di Padova contattò quelli di Venezia e di Treviso. Si mossero tutti. Quando arrivammo in paese trovammo perfino i giornalisti (ride, ndr) e un camion dei soccorsi con formaggio e vino…».

Questa disavventura non la scoraggiò?
«Mi introdusse in un ambiente in cui mi sono sentita subito a mio agio. Perché ci si confortava a vicenda, si tentava di scherzare per tenersi su. Con tutte queste persone si stabilì un rapporto di amicizia molto forte. La domenica successiva era il 4 novembre e c’era la festa del Cai. Non avevo mai visto la palestra di Rocca Pendice e il destino volle che lì conoscessi un istruttore della scuola, che poi diventò mio marito. E cominciò una cordata che si interruppe solo con la sua morte. Era istruttore nazionale e io me la cavavo bene, così grazie alla sua guida cominciammo dalle montagne italiane: Monte Bianco, Monte Rosa, il Cervino…».

Come nacque l’idea di tentare qualcosa anche fuori dall’Europa?
«Uno del Cai nel ’65 propose di andare all’estero. Formammo un gruppetto, e a spese nostre, ma con il vessillo del Club Alpino, pensammo a qualche cima extraeuropea. La scelta cadde sul Damavand, in Persia. Non le dico com’era il nostro rifugio. Un pagliericcio, il proprio sacco a pelo e basta. Ci portammo da mangiare e da undici che eravamo partiti, arrivammo in tre: io, mio marito e una mia amica. A una certa quota c’è il cosiddetto mal di montagna. Ho l’impressione che noi donne reagiamo meglio. L’altitudine fa mancare l’ossigeno, ma io non ho avuto nulla».

Così le avventure continuarono…
«L’anno successivo andammo in Perù, in tredici, toccammo i 6 mila metri. 6.075, sul Chachani. È un vulcano spento, non difficile. È stata la quota più alta che ho fatto. L’anno successivo andammo in Kenya. In tutti questi viaggi si cercava di combinare il lato turistico con quello alpinistico. È stato bellissimo arrivare sul lago Turkana, dove c’è una sezione staccata della diocesi di Padova, e vedere tutti questi animali in libertà. Poi ancora salimmo il Ruwenzori, in Congo Belga, ora Repubblica Democratica del Congo, al confine con l’Uganda. C’è il famoso Nyiragongo, uno dei vulcani più pericolosi al mondo, perché erutta in continuazione. E poi feci la terza cima dell’Africa, il Kilimangiaro».

È riuscita a trasmettere ai suoi nipoti la passione per la montagna?
«Sa cosa mi dispiace? Non aver assistito alla crescita dei miei due nipoti. Mia figlia ha vissuto molti anni all’estero, e ora da un paio d’anni è tornata qui, ma i ragazzi lavorano tutti e due in Inghilterra e come me, forse ispirati dai miei racconti, vanno in montagna, ma senza affrontare le difficoltà che ho incontrato io. Però io ho potuto farlo grazie all’aiuto di mio marito. Sono salita quasi sempre da seconda. Con le mie forze, ma da seconda».

In montagna bisogna saper rinunciare per non rischiare
nonna-anna

«Questo tipo di attività sportiva ha perso la sua spiritualità, sostituita dalla competizione. Per cui la gente è portata a rischiare. Vorrei raccomandare a chi va in montagna: finché ci sono le tracce e puoi vederle, torna indietro. E poi rinuncia. Saper rinunciare costa, ma bisogna saperlo fare, perché altrimenti si mette a rischio la vita propria e quella dei soccorritori».

La montagna

«Questo sport mi ha insegnato a conoscere la gente. Quando uno è stanco, svela il suo carattere. Le cose si condividono. Se a uno manca l’acqua e ha sete, è spontaneo dire: io ne ho ancora. Se uno è stanco, io rallento. Ci si impara a conoscere, anche attraverso le difficoltà. La montagna insegna anche questo. La considero maestra di vita. Di fronte a un imprevisto dico: se ce l’ho fatta allora, ce la farò adesso».

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)