In morte di don Vincenzo Sorce: Il futuro è un diritto di tutti

Di tante cose si preoccupava e ragionava don Vincenzo: di fatti ecclesiali e di fenomeni sociali, di fede e cultura, di impegno politico e pastorale, di professionalità e volontariato, di gestione manageriale e consacrazione secolare, di efficienza e gratuità, di assistenza terapeutica e direzione spirituale, di azione e contemplazione, di fare e pensare, di locale e universale, di fatiche umane e aneliti religiosi, di fedeltà all’uomo e a Dio, tutto e sempre secondo la logica polare dell’Incarnazione, in riferimento alla quale il fondatore di Casa Rosetta decifrava e viveva quello che possiamo considerare a ragione un vero e proprio carisma, tendendo all’unità delle pur diverse dimensioni, senza mantenerle distanti l’una dalle altre, ma neppure senza avallarne la confusione

In morte di don Vincenzo Sorce: Il futuro è un diritto di tutti

A 74 anni, nella notte tra il 3 e il 4 marzo scorsi, si è spento serenamente don Vincenzo Sorce, prete della diocesi di Caltanissetta, ma attivo – e quindi conosciuto e apprezzato – anche in ambito nazionale. Presbitero dal 1970, nella sua diocesi – nel corso di un alacre e fecondo ministero, durato quarantotto anni – era stato formatore nello stesso seminario dove aveva studiato, vicario parrocchiale, direttore dell’Ufficio catechistico, direttore dell’Istituto di scienze religiose e professore di psicologia, pedagogia, catechetica e teologia pastorale, anche presso la Facoltà Teologica di Sicilia a Palermo.

Soprattutto, ormai quasi quarant’anni fa, aveva fondato l’Associazione Casa Famiglia Rosetta per la cura di quelle che egli chiamava le “nuove povertà” dei nostri giorni, dalle disabilità fisiche a quelle psichiche, e l’Associazione Terra Promessa, per il recupero delle persone dipendenti dall’uso di droghe, poi unificatesi in un unico ente, diramato in molte città della Sicilia, presente con più case a Roma, ma anche all’estero, in Brasile e in Tanzania. A queste strutture aveva affiancato la Comunità di Santa Maria dei Poveri, anch’essa seminata in diverse diocesi siciliane, costituita da consacrati immersi nel mondo, sia laici – anche sposati – che preti, per garantire un polmone spirituale alla sua opera.

Aveva fatto parte del Comitato preparatorio delle Settimane sociali dei cattolici italiani, era stato membro della Consulta nazionale per le tossicodipendenze, era vicepresidente nazionale dell’Aris e perito dell’Onu per il contrasto al consumo di droghe nel mondo. Pubblicista e giornalista, aveva una bibliografia personale ben nutrita di titoli accattivanti e provocatori.

Anche lui, dunque, un prete “multitasking”, come tanti suoi confratelli nella storia della Sicilia contemporanea, dal beato Giacomo Cusmano a don Luigi Sturzo, per giungere sino a mons. Cataldo Naro: di quest’ultimo fu amico intimo, “compagno di calvario e di amore per la nostra Chiesa di Caltanissetta” – come si legge nel testamento spirituale olografo, datato al 29 giugno 2015, che ho ritrovato nel cassetto della sua piccola scrivania, nella sua camera da letto –, del secondo fu grande estimatore, del primo affettuoso devoto e coraggioso imitatore.

Di tante cose, infatti, si preoccupava e ragionava don Vincenzo: di fatti ecclesiali e di fenomeni sociali, di fede e cultura, di impegno politico e pastorale, di professionalità e volontariato, di gestione manageriale e consacrazione secolare, di efficienza e gratuità, di assistenza terapeutica e direzione spirituale, di azione e contemplazione, di fare e pensare, di locale e universale, di fatiche umane e aneliti religiosi, di fedeltà all’uomo e a Dio, tutto e sempre secondo la logica polare dell’Incarnazione, in riferimento alla quale il fondatore di Casa Rosetta decifrava e viveva quello che possiamo considerare a ragione un vero e proprio carisma, tendendo all’unità delle pur diverse dimensioni, senza mantenerle distanti l’una dalle altre, ma neppure senza avallarne la confusione.

Al centro della sua testimonianza cristiana rimaneva, in ogni caso, l’essere umano. In una bella pagina di “Conversazione in Sicilia”, Elio Vittorini annotava già nel 1941 una riflessione che potremmo assumere qui come chiave di lettura, solo apparentemente laica, dell’antropologia di don Vincenzo: “Non ogni uomo è uomo, allora. Uno perseguita e uno è perseguitato. E genere umano non è tutto il genere umano, ma quello soltanto del perseguitato. Uccidete un uomo: egli sarà più uomo. E così è più uomo un malato, un affamato: è più genere umano il genere umano dei morti di fame”. Anche per don Vincenzo, alla luce del vangelo, era così. L’uomo che stava al centro dei suoi sogni e dei suoi progetti, delle sue gioie e delle sue speranze, delle sue preoccupazioni e delle sue riflessioni, era l’uomo povero. Perché nel povero c’è davvero il barlume di somiglianza con quel Signore che si spoglia di ogni sua ricchezza per assumere la condizione dello schiavo nel crocifisso del Golgota. Anche in senso cristiano, dunque, è più uomo il povero che non il ricco, perché Dio assomiglia più al povero: non per niente, per dirci com’è veramente, si è rivelato nel Bimbo di Betlemme, nel Profeta senza tetto e senza guanciale, nel Servo sofferente.

Una fatica sostenuta da don Vincenzo sempre in prima persona, ma non in solitudine. Restavano coinvolti nel raggio vasto del suo impegno, a fargli compagnia e a sostenerlo, tutti quelli che strada facendo entravano a far parte della sua vita. Entravano i suoi familiari, da lui riconosciuti come suoi primissimi maestri di solidarietà. Entrava la sua diocesi d’appartenenza, “Madre” sua – com’egli la considerava spesso ad alta voce –, tante volte nei suoi confronti attenta e premurosa ma altrettanto distratta e rude, coi suoi vescovi, coi suoi preti, col suo seminario, con le sue parrocchie e con le altre varie realtà diocesane, con le sue personalità spirituali più eminenti, con i suoi giovani, con i suoi ammalati, con i suoi poveri. Entrava la Chiesa tutta quanta, col suo ultimo concilio e col rinnovamento da questo iniziato, con i suoi grandi testimoni e maestri, con i suoi pontefici, con i suoi teologi, con le sue necessità e con le sue risorse pastorali, con i suoi santi e con Colei che ne è l’icona tipica, santa Maria dei Poveri, com’egli amava invocarla. Ed entrava il mondo intero: quello che vive alla porta accanto nel disagio del giovane affetto da sclerosi multipla che sta all’inizio di Casa Rosetta, nel disagio dei tanti altri giovani e ragazzi che don Vincenzo incontrava in Sicilia, a Roma, nel resto d’Italia, in America Latina, nell’Est Europeo, in Africa. Entrava, insomma, l’universo delle nuove povertà, degli anziani relegati alla tristezza della solitudine, degli adolescenti imprigionati nel tunnel della droga, degli adulti annebbiati dai fumi dell’alcol e irretiti nell’illusione del gioco d’azzardo, dei tanti bambini costretti dall’autismo a vivere chiusi in un angolo buio come monadi senza porta e senza finestre e dei tant’altri costretti a vivere senza famiglia nelle favelas, degli ammalati terminali affetti d’Aids.

E, attraverso queste feritoie pulsanti come ferite, entrava Dio: che lo chiamava ad esser prete, cioè a convertirsi permanentemente: il Dio che lo mandava dove egli non immaginava di dovere andare, che gli faceva incontrare i suoi poveri, che gli chiedeva di diventare povero, non solo per i poveri ma anche con i poveri, per potersi così salvare dalle proprie ricchezze, per finirla una buona volta, tante volte, d’essere un giovane ricco col pallino di una perfezione autoreferenziale.

La sua morte lascia un vuoto, che potrà essere avvertito solo da chi è consapevole della qualità umana e credente della sua “presenza” ecclesiale e sociale, in ambito siciliano e nazionale. Per questo vale la pena ricordarlo qui un po’ più prolungatamente del solito. Il vuoto però deve trasfigurarsi in capacità, per ospitare in sé quel “futuro nuovo” di cui don Vincenzo ha scritto nell’ultimo editoriale da lui firmato, qualche giorno fa: “Il futuro è un diritto di tutti, dei più piccoli, dei più deboli specialmente. Diritto di vivere con dignità, di morire amati, rispettati, serviti. Diritto di futuro da costruire insieme, con stile sinodale, con la forza della condivisione. Diritto di sperare fondato sulla verità della Risurrezione del Cristo, principio di un mondo nuovo, di una società nuova, di un futuro nuovo. Il cristianesimo è futuro e perciò diritto di tutti”.

Massimo Naro

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Fonte: Sir