Giornata ascolto minori. De Pasquale (Migrantes Messina): “Mai abituarsi al dolore dei ragazzi in fuga”

In occasione della Giornata nazionale dell’ascolto dei minori, Elena De Pasquale (Migrantes Messina) racconta l’importanza di ascoltare i ragazzi migranti: “Ogni storia è unica e insegna a guardare il dolore e la speranza con occhi nuovi”

Giornata ascolto minori. De Pasquale (Migrantes Messina): “Mai abituarsi al dolore dei ragazzi in fuga”

Ascoltare decine di storie di minori giunti in Italia attraverso la rotta del Mediterraneo tutti i giorni. È quello che fa, come operatrice pastorale Migrantes della diocesi di Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela, Elena De Pasquale: “Posso dire con assoluta consapevolezza che non ci si abitua mai a sentire il racconto di esperienze che, seppur a volte simili tra loro, ti lasciano sempre con le spalle al muro e ti spingono a fare delle profonde riflessioni”, ci dice in questo colloquio nella Giornata nazionale dell’ascolto dei minori, istituita lo scorso anno in Italia con l’obiettivo di “sensibilizzare la società sull’importanza di riconoscere ai minori un ruolo attivo e partecipe nelle scelte che li riguardano direttamente”. In questa giornata il Ministero del lavoro e delle politiche sociali lancia una campagna di comunicazione che vuole “sensibilizzare gli adulti sull’importanza di ascoltare concretamente bambini e adolescenti, perché un ascolto autentico è alla base di una crescita equilibrata e serena”.

De Pasquale lavora da 10 anni come operatrice legale nel settore dell’accoglienza, nello specifico si occupa di progetti Sai per minori stranieri non accompagnati. Il confronto con questi ragazzi – spiega al Sir – “ti spinge a riflettere rispetto a quale possa essere il miglior modo per parlargli e soprattutto essere in grado di ascoltarli. Molto credo dipenda dalla situazione, dal lasso di tempo trascorso dal momento traumatico del viaggio a quello che lo sta portando a vivere una condizione di sicurezza.

A livello umano e personale, pur trovandoti di fronte a un minore, e quindi ricoprendo tu il ruolo di ‘adulta’, capita invece di sentirsi ‘piccoli’ rispetto al coraggio che ha avuto un ragazzo nell’affrontare il distacco dalla propria terra, dalla famiglia, nell’incontrare e (fortunatamente) evitare la morte nelle sue molteplici sfaccettature: sul volto di un carceriere libico, nel mezzo del deserto o tra le onde del mare”.

L’ascolto è il primo passo per un aiuto concreto: “Per certi aspetti – spiega De Pasquale – anche l’ascolto può essere un aiuto concreto se a quell’ascolto, e quindi alla comprensione che si ha del bisogno della persona, seguono dei consigli calati nella realtà di tutti i giorni. Penso che la cosa migliore che si possa fare sia quella di far capire a questi ragazzi quali sono le ‘nuove’ priorità che devono avere. Ed è qualcosa di estremamente difficile, perché questo significa indurli a comprendere che nulla di ciò che pensavano o che gli è stato fatto credere al momento della loro partenza (ottenere rapidamente i documenti, trovare facilmente un lavoro, poter essere subito indipendenti ed aiutare la famiglia) corrisponde alla verità. Ciò genera in loro un senso di profonda frustrazione che spesso sfocia in comprensibili atteggiamenti di ribellione, anche in considerazione della fortissima pressione che viene esercitata dai familiari che hanno ‘scommesso’ su di loro, ma è l’unica strada per provare a condurli verso un percorso di integrazione che, passo dopo passo, potrà realmente portarli ad essere autonomi ed indipendenti, in parte anche dal loro passato”.

In questi anni sono stati tanti i ragazzi incontrati dall’operatrice pastorale.

Tra quelle più significative, quella di un ragazzo senegalese, arrivato in Italia a 16 anni a Messina. Dopo avere ottenuto la protezione umanitaria (oggi abolita e sostituita con la protezione speciale), avendo appreso in pochissimo tempo la lingua italiana, ha iniziato a lavorare come mediatore culturale. Ha conseguito la terza media, ha imparato in modo autonomo lo spagnolo e l’arabo (lingua, quest’ultima, appresa per sopravvivenza quando si trovava prigioniero in Libia) e ormai da diversi anni è dipendente Amazon. Ha iniziato lavorando come operaio notturno ed oggi – ci racconta Elena – riveste il ruolo di manager. Lo scorso anno, dopo quasi 10 anni di lontananza da casa, è riuscito a tornare in Senegal dalla famiglia, dove ha trascorso il periodo del Ramadan, ed anche quest’anno ha fatto lo stesso. Amandila, questo il suo nome, rappresenta “per me il senso di cosa significhi ascoltare e lavorare nell’accoglienza”.

Raffaele Iaria

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Fonte: Sir