I referendum dell’8 e 9 giugno

Trattandosi di referendum abrogativi, per la loro validità è previsto un quorum pari alla metà degli aventi diritto più uno

I referendum dell’8 e 9 giugno

Intorno ai referendum che si svolgeranno l’8 e il 9 giugno su lavoro e cittadinanza si sta giocando una partita che coinvolge sia la maggioranza di governo che le opposizioni, sia pure con modalità profondamente diverse, per non dire opposte. In assenza di altre consultazioni nazionali nell’anno in corso, l’appuntamento ha assunto una valenza politica generale. Il dato di fondo da considerare è che, trattandosi di referendum abrogativi, per la loro validità è previsto un quorum pari alla metà degli aventi diritto più uno. E’ ben noto a tutti, su un fronte e sull’altro, che il raggiungimento di questo quorum è diventato un’impresa a dir poco ardua: l’ultima volta è accaduto nel 2011, quando si è votato su gestione pubblica dell’acqua, nucleare e “legittimo impedimento”. Nei primi vent’anni di vita dell’istituto referendario, vale a dire dal 1974 al 1995, il mancato quorum era un’eccezione. Poi, complice la crisi complessiva della partecipazione politica, il rapporto si è invertito.
Ovviamente i promotori hanno tutto il diritto di puntare all’obiettivo pieno per il quale sono state raccolte firme (ora anche in formato digitale) in numero ben superiore al minimo richiesto. E le elezioni per il Parlamento degli ultimi anni hanno insegnato a non sottovalutare i movimenti a sorpresa dell’opinione pubblica. Ciò premesso l’operazione quorum appare altamente improbabile, anche perché – ci torneremo più avanti – i partiti di maggioranza fanno sostanzialmente campagna per l’astensionismo.
Molto più alla portata dei fautori del sì (la Cgil e la maggior parte dei partiti del centro-sinistra) è l’obiettivo di ottenere un risultato numericamente importante anche se poi, in assenza di quorum, non ci saranno conseguenze giuridiche per le normative oggetto dei quesiti. Milioni di voti da spendere nella dialettica politica, magari gli stessi voti che la coalizione di centro-destra nel suo insieme ha raccolto nelle ultime politiche (ma 12 milioni sono comunque tanti). E’da rilevare, peraltro, che il merito di alcuni quesiti, in particolare di quelli relativi al Jobs Act (di renziana memoria), è motivo di divisione anche all’interno del centro-sinistra, con la componente più centrista e i “riformisti” del Pd che sono decisamente contrari.
I partiti che sostengono l’esecutivo, come si accennava, più o meno esplicitamente hanno optato per una linea che cavalca la tendenza al non voto delle ultime consultazioni, suscitando dure critiche da parte delle opposizioni che contestano l’invito all’astensionismo da parte di chi ha la maggioranza in Parlamento e controlla le istituzioni di governo. Dal punto di vista formale, tuttavia, la scelta di non recarsi alle urne è legittima. Il fatto stesso che la Costituzione condizioni la validità del referendum al raggiungimento di un quorum implica che l’elettore abbia anche la possibilità di non votare, oltre a scegliere il sì o il no. Dal punto di vista politico, piuttosto, sorprende nel centro-destra che tutta l’enfasi sul voto popolare, spesso impropriamente contrapposto alle decisioni degli organi rappresentativi e di garanzia, finisca per arenarsi di fronte alle convenienze della tattica politica.

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Fonte: Sir