Proteste in piazza. Fiasco: “C’è una sofferenza nel Paese reale che non è rappresentata dalla violenza”

"C’è un vuoto nel cogliere le implicazioni che il dramma della pandemia ha scatenato per una larga parte degli italiani da parte di chi ha responsabilità nelle istituzioni politiche, nelle amministrazioni, nelle istituzioni sociali e nel mondo dei media", spiega al Sir il sociologo

Proteste in piazza. Fiasco: “C’è una sofferenza nel Paese reale che non è rappresentata dalla violenza”

Tafferugli in piazza Montecitorio durante la manifestazione di commercianti e ristoratori per chiedere le riaperture, ma le proteste riempiono le piazze italiane da Nord a Sud. Con il sociologo Maurizio Fiasco riflettiamo sul momento attuale che vive il Paese, dopo un anno di “convivenza forzata” con il Covid-19.

Professore, di cosa sono figlie le proteste, anche violente, di piazza?

Se fossimo indietro di quarant’anni avrei detto: c’è una parte politica, sociale, sindacale del Paese che si oppone a un’altra parte, organizza i suoi movimenti e porta in piazza le persone. Adesso, nonostante il passaggio da una frattura netta tra maggioranza e opposizione al coinvolgimento di larga parte delle componenti politiche del nostro Paese in una responsabilità generale per l’emergenza pandemia, il messaggio che viene dall’alto non si presenta in modo univoco. Questo fa dilatare lo spazio per la manipolazione, per fare delle operazioni di mercato su qualcosa che è certamente reale ma che riceve una cornice diversa con queste deformazioni. Insomma, il mercato delle emozioni, il mercato della rabbia, il mercato del risentimento sono diventati l’oggetto di una pervicace manipolazione. Se, invece, lei parla con i commercianti veri, le commesse vere, i lavoratori veri, le casalinghe vere, i giovani veri, c’è tanta sofferenza ma non c’è rabbia irrazionale.

Gli italiani hanno ben chiara la gerarchia delle questioni: prima di tutto vengono la vita e la salute,

anche se si pongono drammaticamente dei quesiti: “Cosa accadrà? Come farò dopo?”. Ma queste domande non se le pongono con rabbia, con irrazionalità. C’è un abisso tra le manifestazioni della violenza che abbiamo visto nelle piazze e nelle nostre case attraverso la tv e il senso comune morale, certamente di sofferenza e smarrimento.

Quelle persone in piazza non rappresentano il Paese reale, ma c’è una sofferenza nel Paese reale che ancora non è interpretata nella chiave giusta da chi ha responsabilità politiche e di governo.

C’è un senso comune, una sofferenza comune e una generale sobrietà degli italiani, che non significa passività.

La rappresentazione violenta in pubblico è un’ulteriore violenza che viene fatta sulle persone che soffrono.

Esiste un modo per contrapporsi a questa violenza?

Un’alternativa efficace per smantellare la violenza è chiederci: com’è interpretata la vita quotidiana di milioni di famiglie? Com’è presa in carico da chi ha somme responsabilità nella cosa pubblica, nei media, nelle istituzioni sociali?

Dobbiamo dilatare la comprensione e la responsabilità di chi assolve correttamente il suo dovere e il suo ruolo. Dilatando comprensione e responsabilità riduciamo lo spazio della strumentalità della violenza,

che non porterà mai in piazza il disoccupato, il commerciante disperato, la colf, l’infermiera, la badante, il lavoratore dell’edilizia in nero, il venditore ambulante. Queste persone sarebbero andate in piazza quarant’anni fa seguendo un’indicazione nazionale di un’opposizione politica legittima e perciò non violenta.

C’è chi sta soffrendo di più per la pandemia…

Sì, non tutto il Paese ha pagato e paga alla stessa maniera l’emergenza e dobbiamo dirlo. C’è il 62% degli italiani che non hanno avuto alcuna conseguenza reddituale e per il 2,5% addirittura il reddito è aumentato nel 2020, mentre c’è un 35% di italiani che ha visto ridursi il reddito e all’interno di questi c’è uno su 8 che ha visto ridurre il proprio reddito dal 25% a più del 50%. Questo dualismo assunto con responsabilità suggerisce che cosa fare. Invece,

c’è un vuoto nel cogliere le implicazioni che il dramma della pandemia ha scatenato per una larga parte del Paese da parte di chi ha responsabilità nelle istituzioni politiche, nelle amministrazioni, nelle istituzioni sociali e nel mondo dei media.

Dentro questo contesto ci sono le punte di irresponsabilità di chi invece di concorrere a dare un messaggio unitario al Paese cerca di soffiare sul fuoco. Lo spazio per chi soffia sul fuoco è eccessivamente ampio, in Italia come pure in altri Paesi, perché il messaggio generale che viene dato è spesso oscillante, con “venature di analfabetismo pedagogico”.Sarebbe, infatti, lineare e onesto dire: “Non sappiamo quando la pandemia finirà, di conseguenza non sappiamo quando le misure restrittive potranno essere revocate. Fino a quel momento stiamo tutti in trincea, accettiamo consapevolmente una disciplina”.

Invece, si cade nell’errore del padre che per convincere il figlio a prendere una medicina gli promette dopo una caramella. Si trattano gli italiani come bambini da incentivare con promesse che poi si rivelano vane. E quando viene prospettato un sacrificio a termine, questo fa male al senso comune della popolazione.

Chi si approfitta di questa situazione?

Gli imprenditori del mercato della paura, del mercato della violenza, del mercato della strumentalizzazione politica. In sociologia c’è la figura dell’imprenditore morale: davanti a un’ondata di panico morale, cioè di una preoccupazione profonda, diffusa e assillante che ricorre nella popolazione, c’è chi coglie una opportunità esattamente come un imprenditore coglie un’opportunità di mercato. Com’è composto l’ambiente degli imprenditori morali? Partiamo da quelli spontanei, da persone non sobrie, ma esaltate che vogliono conquistare la ribalta, per arrivare a settori dei mass media in concorrenza tra loro per catturare l’audience e a settori del mondo politico che scelgono la strada della concorrenza sleale; poi c’è tutto un sottofondo oscuro di speculatori che davanti alle turbolenze ha tutto da guadagnare proprio per operazioni manipolatorie e speculative sul piano finanziario. Per ostacolare tutto ciò

sarebbe necessario un atteggiamento responsabile e razionale da parte delle istituzioni politiche, amministrative, sociali e informative, ma ci vuole un collegamento con quella parte della società che realmente soffre, che ha fame di trovare una rappresentazione e di essere capita.

Cosa si aspetta che succeda?

Si sta creando un asse della razionalità nella politica. E quest’asse della razionalità può contare sul presidio della ragione, che non è mai venuto meno in tutti questi anni e in quello tragico della pandemia, da parte della Chiesa.

Pur essendo una grande autorità spirituale, la Chiesa ha agito come il presidio del buon senso e della ragione e continua a farlo.

Se si ricostruiscono tutte le prese di posizione del Papa, esse hanno una linearità che lasciano a bocca aperta per la limpidezza, per la epistemologia della verità che contiene. La Chiesa ha presidiato la ragione e la razionalità nel nostro Paese, spesso in solitudine. Ha messo in campo quella pedagogia che manca ancora o è incerta o è debole nei livelli decisionali pubblici.

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Fonte: Sir