Che sia una festa per i dimenticati. La Pasqua del Sudan, del Myanmar, dei soli e dei malati

La Pasqua del Sudan, del Myanmar, dei soli e dei malati

Che sia una festa per i dimenticati. La Pasqua del Sudan, del Myanmar, dei soli e dei malati

S udan, due anni dopo. Mentre un Occidente benestante – per quanto preoccupato e provato e da anni di pandemia, guerra e ora di dazi impazziti – si appresta a fermarsi per celebrare la Pasqua, il Paese africano continua ad anelare una pace che appare ancora impossibile. Sono 30 milioni le persone che hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria, in un contesto internazionale in cui Ucraina e Palestina sembrano calamitare tutte le attenzioni di cui siamo capaci. «Il Sudan e il suo popolo sono stati dimenticati mentre la crisi continua ad aggravarsi e la popolazione lotta per sopravvivere» è la denuncia contenuta in una dichiarazione congiunta firmata da Act Alliance, Caritas Internationalis, Consiglio ecumenico delle Chiese, Conferenza di tutte le Chiese africane, Associazione delle Conferenze episcopali membri dell’Africa Orientale e Caritas Africa. Un popolo che è insieme il più povero e il più giovane del mondo: un ossimoro, in apparenza: persone piene di futuro che non hanno i mezzi per progettarne uno. «Il cammino verso la pace non è solo un’aspirazione ma una base essenziale per la sopravvivenza e il futuro di milioni di persone. Il finanziamento degli aiuti non è un gesto di buona volontà ma è indispensabile per chi è intrappolato nella violenza e nello sfollamento» ha chiarito Alistair Dutton, segretario generale di Caritas Internationalis, aggiungendo tuttavia che solo l’1 per cento di quanto versato nel mondo arriva a chi effettivamente opera sul campo. Non diamo per carità ciò che spetta per giustizia, si potrebbe affermare con le parole di don Giovanni Nervo. Un silenzio simile è già calato, e da giorni ormai, sul Myanmar devastato dal terremoto, per il quale tuttavia la piaga più profonda è la guerra. «Continuate a pregare per la pace in Myanmar», è l’appello del vescovo Lucius Hre Kung dopo la distruzione della chiesa di Cristo Re a Falam, dove i cattolici celebreranno la Pasqua da sfollati. Mentre di rotte migratorie verso l’Europa, attraverso il Mediterraneo o i Balcani, sembriamo non volerne più sentir parlare, talmente ne siamo assuefatti. Eppure l’Unicef ci ricorda, in questi giorni, che in dieci anni circa 3.500 tra bambini, bambine e adolescenti sono morti o scomparsi proprio nel tentativo di percorrere la rotta del Mediterraneo centrale fuggendo da guerre, conflitti, violenze e povertà, cause che continuano ad alimentare la migrazione forzata e a spingerli a cercare sicurezza e opportunità altrove. E se per un bambino che perde un genitore un termine c’è, “orfano”, per un genitore che perde un bambino no, come se il fatto fosse grave al punto da non volerlo neppure nominare. Se questo accade su un barcone, in pieno mare, magari di notte, la cosa è ancora più disperante. A Pasqua il pensiero viaggia per il mondo, in cerca dei fragili, degli “ultimi”, di chi non ha mezzi e si trova a disputare una lotta per la sopravvivenza senza avere avuto colpe o meriti di sorta. Quel Gesù che con la risurrezione spazza via il più grande tabù dell’esistenza umana e spalanca le porte della vita eterna ha un messaggio proprio per queste persone. Come per tutti i nostri conterranei che fanno i conti con stipendi che non permettono una vita dignitosa, per chi vive una solitudine non cercata, ripensa al tempo andato che non tornerà o arranca a causa del dolore o della malattia. Il Cristo risorto illumina della sua luce anzitutto chi soffre e fatica. E ricorda loro che una svolta nella vita è sempre possibile, che nulla è finito per sempre, che il bene è sempre a portata di mano e che spesso basta liberarsi di pregiudizi e grandi aspettative per raggiungerlo. Lo scrive bene Francesco Vidotto, nel suo ultimo libro, Onesto (Bompiani): «Spesso, a ben guardare, spendiamo la vita per raggiungere una cima, e invece avevamo solamente bisogno di un valico. Un luogo dal quale poter ripartire, seguendo un sentiero per l’altrove. Dove il panorama si spande, la brezza rinfranca e una lieve discesa inizia insieme a una vita nuova di zecca».

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)