«Le nostre comunità forse sono ancora troppo abituate a ricevere tutto dal prete... e il prete talvolta esercita troppo il suo ruolo in termini di autorità»

Mentre ancora si discute sui fatti di cronaca che hanno coinvolto due sacerdoti padovani, il nuovo vicario generale, don Giuliano Zatti afferma: «Abbiamo bisogno di riflettere insieme di più, di interrogarci sui fatti dolorosi che stiamo vivendo. È un problema dei preti? Forse, più in generale, è un impegno che tutta la comunità deve assumersi per costruire relazioni diverse: nella verità e in una autentica fraternità di vita

«Le nostre comunità forse sono ancora troppo abituate a ricevere tutto dal prete... e il prete talvolta esercita troppo il suo ruolo in termini di...

«In questi giorni – riflette il vicario generale don Giuliano Zatti – siamo accompagnati dalla Lettera agli Ebrei, che si sofferma sul sacerdozio di Cristo. Qual è la novità della sua presenza tra noi? La misericordia! Non lo dico perché siamo reduci dall’anno santo, ma perché tutti noi facciamo come credenti l’esercizio di una misericordia che ci precede, che ci è donata, e che va condivisa. Attendiamo tutti di essere rimessi in piedi. Allora credo che, pur in mezzo a tanti impegni pastorali, dovremo trovare tempi, luoghi, modi per leggere assieme certi fatti che oggi ci cadono addosso, per chiedere perdono, per dare un nome ai disagi che vediamo manifestarsi e individuare qualche correttivo».

Da dove partire?
«Forse proprio nei momenti di difficoltà sentiamo con più chiarezza che viene chiesto a tutti, senza distinzioni, un esercizio di verità e di attenzione reciproca: tra preti, tra preti e comunità, tra generazioni. Per crescere insieme, in un reciproco sforzo di conoscenza e al tempo stesso nella consapevolezza che siamo davvero tutti corresponsabili. Nel bene e nel male».

C’è un problema di solitudine del prete, specialmente del parroco, con cui dobbiamo fare i conti?
«La solitudine dei preti non è dovuta semplicemente al fatto che manca una donna accanto. Un prete si sente solo perché dai superiori, dai confratelli, dalla comunità, dalle persone che incontra si sente non sostenuto, non amato, non riconosciuto come persona. E i tempi attuali sono sovraccarichi di aspettative. Mi verrebbe da chiedere: ma la gente chiede al proprio prete come sta? Essere percepito come un “datore di servizi” non può bastare. Anche il prete, al pari di ognuno, ha bisogno di essere riconosciuto nella propria umanità, nella propria spiritualità, nel suo essere persona, non solo per il suo ruolo. Poi, certo, a noi preti spetta chiedere aiuto, lasciarci raggiungere, non isolarci, promuovere la comunità. È una fatica reciproca, quella che ci viene chiesta oggi».

Qual è il rischio che temi di più?

«Il non dover rendere conto a nessuno per un prete – ma anche per i laici – può essere drammatico. Non esercitare una reale collegialità, non pensare insieme, può portarci a non credere nemmeno più nella bellezza della collaborazione, nel gusto di poter fare le cose insieme. Questo è un aspetto su cui tanto abbiamo insistito negli anni: credere e lavorare assieme è un grande esercizio di grazia».

Antidoti?
«Il primo, pensando ai preti, è quello di prendersi cura di sé attraverso la formazione, imparando il proprio ministero ogni giorno. E poi vivere la fraternità, perché il vangelo va detto e vissuto assieme. I laici dovrebbero assumersi maggiore responsabilità verso la fede propria e altrui, magari anche accompagnando il proprio prete con sguardi di attenzione, di delicatezza e non solo di pretesa. Quanto bello sarebbe che i preti si lasciassero “cambiare” dall’incontro con le persone! E le persone dall’incontro vero, umano, con il proprio prete!».

Questo significa rivedere ruoli e compiti cristallizzati nella tradizione e ormai non più adeguati?

«In parte credo sia così. Le nostre comunità forse sono ancora troppo abituate a ricevere tutto dal prete... e il prete talvolta esercita troppo il suo ruolo in termini di autorità. Dobbiamo tutti metterci in gioco, imparando quella misericordia che è affidamento reciproco e stimolo vicendevole. È una domanda che dobbiamo porci a tutti i livelli, che sia la congrega dei preti come un consiglio pastorale, la parrocchia come un’unità pastorale o un vicariato.

Quale ascolto reale siamo capaci di mettere in gioco? Cosa significa sentire il sapore buono del vangelo? Quali buone pratiche possiamo imparare? Cosa vale la pena considerare e cosa invece lasciare? Qui, non altrove, si gioca il futuro della nostra chiesa. Portare assieme la passione del vangelo, preti con altri preti, preti con i laici, maturando amicizie belle, godendo della consolazione di una chiesa che cresce nonostante il male. Forse anche le nostre solitudini di preti ne riceverebbero forza e stimolo».

Vuol dire che – al di là e prima dei ruoli – c’è un problema di verità, profonda, autentica, da ritrovare nelle relazioni?
«Certamente. Anzi, più diventa arduo il cammino della nostra comunità ecclesiale, e più bisogna camminare insieme; più diventano faticosi i percorsi che stiamo portando avanti, più bisogna saper ricercare l’intelligenza e la fantasia degli altri. Se non c’è questa sensibilità reciproca – che non nasconde e non giustifica fatti brutti e pesanti, che sono capitati e magari capiteranno anche in futuro – come possiamo pensarci veramente chiesa? Se manca una presa in carico della comune vicenda cristiana, quale comunità di fede potremo essere? Al tempo stesso, se io non mi consegno a te, e se tu non sei disposto a ricevermi, che fiducia reciproca potrà mai nascerne?

Serve una grande prova di sincerità e di credito reciproco: verso i superiori, verso gli altri preti, in seno alla comunità. Perché i preti hanno paura di intervenire nella vita dei loro confratelli? Perché la comunità non impara lo stile della correzione fraterna? Perché non sappiamo pronunciare parole che edificano e compiere gesti utili?».

Come fare un passo in avanti? Cosa ci salva?
«Siamo reduci dalle feste natalizie. L’Incarnazione sta a dirci come – nonostante tutto – c’è un bene ostinato, una fedeltà ostinata da parte di Dio che noi intravediamo appena. È un bene grande, affidato a mani troppo povere ma che comunque va ben oltre quel che ciascuno di noi, anche il migliore, riuscirà mai a fare o a dire. Abbiamo vissuto giorni santi, quelli natalizi, ma è una storia santa anche quella dell’anno che è appena iniziato... nonostante tutto! Nonostante le manchevolezze, nonostante gli scandali. Ne abbiamo certezza perché è Dio stesso che ha accettato di affidarsi a mani così, povere, inadeguate. Noi abbiamo una responsabilità, però: riconoscere davvero che siamo parte di un gioco più grande, che è il gioco del Regno di Dio e che è solo messo a prestito nelle nostre mani. Che uno sia prete o laico, poco cambia... nessuno dice l’ultima parola e tutti dobbiamo continuare a ripeterci la domanda più importante: perché, per chi sto facendo questo? Qual è il senso ultimo? Cosa ci unisce, se non la comune fede e il comune desiderio di Dio? Il resto, i protagonismi, gli individualismi, le derive, nascono, si fanno spazio dentro di noi e magari finiscono per travolgerci solo nel momento in cui ce ne dimentichiamo. E solo se nessuno accanto a noi ci ama al punto tale da prendersi cura – con coraggio, nella verità – della nostra vita».

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